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Campagne Marketing

Co-branding, le collaborazioni che non ti aspetti

25 Gennaio 2022

Co-branding: in poche parole, due mondi che si incontrano (e qualche volta si scontrano).
Cosa porta due brand a intrecciare i loro rispettivi pubblici e universi valoriali?
Scopriamo insieme le caratteristiche, i vantaggi e le opportunità del co-branding, citando alcune delle collaborazioni più inaspettate.

Osare, ma con cognizione di causa

Collaborare con un altro brand è un’arma a doppio taglio: ampliamo il nostro universo di valori, conquistando una nuova fetta di pubblico, ma rischiamo di mettere in discussione la nostra stessa immagine agli occhi dei clienti. Purtroppo è così: se nella vita di tutti i giorni veniamo giudicati anche in base alle persone che frequentiamo, lo stesso vale per il co-branding.
Per questo motivo, la scelta va ben ponderata, ma osare con cognizione di causa può portare ai migliori risultati perché permette di aprire un nuovo orizzonte per il nostro brand.

Un rischio che premia entrambi

Lo sanno bene i marchi d’alta moda, che non perdono occasione di collaborare con brand di streetwear e sportswear, ma anche con catene d’abbigliamento low cost.
Abbiamo visto collaborazioni fra Versace e H&M, Nike e Dior, Supreme e Louis Vuitton. Questo tipo di partnership risulta vantaggiosa per entrambe le parti: lo streetwear, lo sportswear e il low cost acquistano un’aura di esclusività, mentre il luxury ottiene una “street cred”, avvicinandosi ora alle tendenze underground, ora alla vita delle persone comuni.

Uniti dagli stessi valori

Le partnership più interessanti sono quelle che uniscono marchi che operano in ambiti diversi, ma che trovano terreno comune sulla base di valori profondamente radicati in entrambi. Ad esempio, la collaborazione fra Fendi e la marca di pasta Rummo può risultare bizzarra solo a un primo sguardo: entrambe sposano i concetti di artigianalità e Made in Italy, quindi il connubio da un lato sorprende e dall’altro risulta completamente sensato, e quindi funziona.

Riflettere le abitudini della gente

Il successo della recente partnership fra Chiquita e Nutella si è basato su un abbinamento ideato e promosso dai clienti stessi: lo possono testimoniare le ricette che affollavano il web svariati anni prima che la collaborazione venisse annunciata. In questo caso, si può dire che il successo sia praticamente scontato: l’unione fra i due marchi non sorprende, ma risponde a un bisogno già insito nel cliente. Al contrario, è interessante notare come la partnership fra Philadelphia e Milka si sia rivelata un fiasco: sebbene gli italiani trovino sfiziosi i prodotti di entrambe le marche, l’associazione del formaggio con la cioccolata è risultata indigesta per la maggior parte dei clienti, tanto da evitare di assaggiarlo a priori. Anziché basarsi sul successo individuale dei due marchi, quindi, la partnership avrebbe dovuto prendere in considerazione le abitudini alimentari degli italiani, che difficilmente associano il formaggio con il dolce, a differenza dei francesi o di altri popoli europei.

Scorgere nuove opportunità

Una partnership può essere un’occasione per sfatare stereotipi e preconcetti che non trovano riscontro nell’effettiva osservazione del comportamento dei propri clienti, sperimentando su nuove fasce di pubblico sulla base di dati che appaiono promettenti.
Ad esempio, avendo riscontrato un crescente interesse per Star Wars da parte di un pubblico di giovani donne, LucasFilm ha lanciato una linea di cosmetici in collaborazione con CoverGirl: la collaborazione si è rivelata un successo, smentendo le tesi dei fan di vecchia data, convinti che il fandom di Star Wars fosse quasi esclusivamente maschile.

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Filed Under: Campagne Marketing

Video strategy: differenziare per differenziarsi

25 Gennaio 2022

Il video marketing non è solo questione di tecnica: la realizzazione di video di qualità dal punto di vista estetico e narrativo deve essere coniugata con la progettazione di un piano d’azione che possa determinare quale tipo di contenuto pubblicare e quanto spesso.

La strategia più semplice e conosciuta è quella delle 3H: è stata sviluppata da YouTube per le campagne video, ma si può estendere a tutto il content marketing. Si tratta di un modello di comunicazione rappresentato attraverso una piramide che mostra quali contenuti occupano base, corpo e punta di una video strategy.

Il piano si basa sulla differenziazione dell’offerta, rispondendo a diverse esigenze del pubblico attraverso tre tipologie di video:

  • Hero
  • Hub
  • Help

Hero

I video Hero sono progettati per essere condivisi: sono contenuti spettacolari e di grande impatto, caratterizzati da un forte carico emotivo.
Si pongono l’obiettivo di attirare l’attenzione, stupire ed entusiasmare.
Nella piramide occupano la sommità: raggiungono potenzialmente un pubblico più ampio degli altri contenuti, anche utenti che normalmente non verrebbero raggiunti dal brand, e vengono prodotti in quantità minore rispetto alle altre tipologie di video in quanto necessitano di una grande creatività e spesso un budget elevato, sia per la realizzazione che per la promozione. Inoltre, come tutti i contenuti ad alto impatto, vanno centellinati nel tempo per non stancare gli utenti, conservando il fascino del grande evento.
Ad esempio Epic Split di Volvo Trucks, ideato dall’agenzia svedese Forsman & Bodenfors, ha messo in luce le caratteristiche del prodotto giocando con l’ironia: il video è diventato virale, andando incontro a infinite parodie.

Hub

Se i video Hero rappresentano lo scatto dinamico che ci permette di acquisire nuovi follower, i contenuti Hub costituiscono una maratona volta a fidelizzare le persone che hanno deciso di seguirci, magari proprio dopo aver visto un contenuto Hero. Generalmente raggiungono meno utenti rispetto agli Hero e vengono pubblicati più spesso.
Il concetto chiave è la costanza: si tratta di contenuti che devono essere replicabili nel tempo, offrendo un giusto compromesso tra qualità, tempo di realizzazione e budget.
Si può fare utilizzo di format da declinare in appuntamenti predefiniti a cui gli utenti possono abituarsi, tornando regolarmente a interagire con i video del brand. L’obiettivo è quello di intrattenere e coinvolgere con contenuti che offrano un valore aggiunto e una finestra aperta sul brand, costruendo una relazione con gli utenti. Questa tipologia di video permette al marchio di far sentire in modo continuativo la sua presenza, affermando il proprio stile e tone of voice.

Un esempio, ideato per Volvo dall’agenzia svedese Spoon, è la serie Welcome To My Cab, che coinvolge i proprietari dei camion più particolari con uno stile registico e narrativo che ricorda i programmi di Real Time.

Help

I contenuti Help si trovano alla base della piramide, avendo un raggio di azione molto più ridotto rispetto ai contenuti Hero e Hub: si rivolgono ai clienti, effettivi e potenziali, dell’azienda. Non si tratta di nuovi utenti da raggiungere (Hero), né di follower da fidelizzare (Hub), ma di persone che hanno intenzione di acquistare e prima di farlo hanno bisogno di saperne di più sul brand. Lo scopo è quello di raccontare cosa fa l’azienda e chi ci lavora e/o di illustrare caratteristiche e benefici di prodotti e servizi, spesso sotto forma di tutorial.
Quando gli utenti si ritrovano a decidere se e cosa comprare, si basano sulla chiarezza delle informazioni presenti in rete e un video Help può essere un modo rapido ed efficace per rispondere ai loro dubbi fornendo spiegazioni e consigli.
Ad esempio, Volvo pubblica video in cui vari esperti spiegano, in modo coinvolgente, la tecnologia dietro ai prodotti dell’azienda.

Differenziare video e piattaforme

Come dicevamo, una buona video strategy si basa sulla differenziazione di contenuti: l’obiettivo è quello di costruire un piano editoriale equilibrato con video diversi che possano raggiungere pubblici diversi, rispondere a diverse esigenze e fornire diversi punti di vista sul brand.

La sinergia fra tutti questi elementi dà vita al funnel ideale:

  • Con i contenuti Hero attiriamo l’attenzione, intercettando utenti che si trovano al di fuori del nostro raggio d’azione;
  • Con i contenuti Hub accompagniamo e fidelizziamo il pubblico che ha deciso di seguirci;
  • Con i contenuti Help aiutiamo l’utente a saperne di più sul nostro brand, veicolandolo verso l’acquisto.

In questo contesto, è importante porre l’attenzione sulle diverse piattaforme social, che richiedono video di tipo diverso sulla base delle loro diverse caratteristiche.
Ad esempio, se su TikTok l’audio è fondamentale, in virtù della forte connessione fra immagini in movimento e musica/suoni che caratterizza la piattaforma, notiamo come i video di Facebook e di Instagram vengano visualizzati con l’audio disattivato nei loro primi tre secondi e oltre. Questi contenuti devono quindi essere corredati da caption e sottotitoli in modo da funzionare efficacemente anche a volume spento, e/o da indicatori grafici che segnalino all’utente di attivare l’audio. Fondamentale, inoltre, catturare l’attenzione proprio in quei tre secondi iniziali, anche grazie ad un’efficace immagine di copertina per chi scorge il video dal feed. Se su Facebook si tende a non esagerare con la lunghezza dei video, su Instagram ci sono diverse opzioni che permettono di diversificare le proposte. Sul feed si possono pubblicare video fino a 60 secondi, ma, con IGTV, è possibile condividere contenuti che superino tale durata (fino a 60 minuti): in questo secondo caso, saremo sicuri che gli utenti che cliccano sul video per vederne la prosecuzione risulteranno particolarmente attenti nella visione del contenuto, avendo superato la loro soglia d’attenzione minima. E poi ci sono le stories, in cui è la breve durata (15 secondi) a farla da padrone, come per i reels e per i video di TikTok. Se le stories è possibile pubblicarle in modo che si ritrovino ad essere l’una il proseguimento dell’altra, per i reels e per i video di TikTok è fondamentale che si tratti di contenuti autoconclusivi, o in alternativa è necessario incentivare l’utente a visionarne il seguito: una strategia utilizzata da molti tiktoker è proprio quella di terminare il contenuto con un cliff-hanger, un finale in sospeso che genera curiosità nello spettatore, impaziente di visionare la parte successiva, che verrà pubblicata in seguito (e questa è una strategia molto utilizzata dai creator per farsi seguire).

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Filed Under: Campagne Marketing

Sound branding: dal jingle alla playlist su Spotify

20 Ottobre 2021

Ogni suono porta con sé un bagaglio fatto di sensazioni e ricordi che bussano al nostro inconscio: per questo il sound branding può essere un elemento fondamentale per costruire la propria brand identity, veicolare i valori dell’azienda e farsi ricordare.
In che modo il suono può essere utilizzato per comunicare con i propri clienti? Scopriamolo insieme!

Cos’è il sound branding?

In pochissime parole, il sound branding è una strategia di marketing volta ad associare un elemento sonoro a un brand.
Così come un logo rappresenta un brand dal lato visivo, un suono può caratterizzarlo dal punto di vista uditivo.

Sound branding: declinazioni e casi celebri

Da anni, sul web, proliferano meme che riportano testi di sigle famose di 20 o 30 anni fa con la didascalia “So che l’hai letta cantando” o che giocano con il concetto di “immagini che puoi sentire”, per cui alla componente visiva si ricollega immediatamente quella uditiva.
Questo succede con quei loghi che vengono sempre accompagnati da un suono ben preciso ogni volta che compaiono: in questi casi, immagine e suono diventano un tutt’uno, tanto che si parla di marchio sonoro o sound logo. Un esempio recente è Netflix: il suono che accompagna il suo logo si adatta perfettamente alla natura click and play della piattaforma. Ce ne accorgiamo se lo mettiamo in confronto con la trionfale orchestra del sound logo della 20th Century Fox, che immerge lo spettatore nella visione dei film rimandando ad atmosfere da cinema.

Nel caso di McDonald’s, invece, non si tratta solo di un suono o di una base strumentale, ma del payoff che viene messo in musica (“I’m lovin’ it”). In altri casi si gioca con suoni legati al brand/prodotto stesso: Coca Cola richiama alla freschezza della bibita con il rumore che fa il tappo quando viene aperta la bottiglia, mentre Visa ha elaborato il “suono della transazione” con l’obiettivo di evocare una sensazione di sicurezza.

Poi ci sono i jingle degli spot, che possono ricollegarsi anche a singoli prodotti.
Ci sono casi in cui i marchi non creano delle musiche ad hoc, ma si avvalgono di canzoni più o meno famose che si vanno ad intrecciare indissolubilmente con il brand nella mente del consumatore: questa è una strategia sempreverde che ha raggiunto uno dei suoi picchi massimi, in Italia, con gli spot Vodafone di inizio anni ‘00, in un’epoca in cui i tormentoni musicali cominciavano a diffondersi anche sotto forma di suonerie.

La più recente frontiera del sound branding è costituita dalle playlist dei brand su Spotify.
Il caso più celebre è quello di Barilla, che ha creato diverse playlist che fungono da timer per la cottura della pasta, con una durata che si adatta ai diversi formati. L’idea è nata in risposta al “movimento grandi minuti”, sorto sui social per criticare, scherzosamente, la scarsa leggibilità dei minuti di cottura sui packaging della pasta.

Un altro recente esempio è quello di Lego: le playlist White Noise riproducono il suono dei mattoncini quando vengono montati l’uno con l’altro. Questo tipo di registrazioni risulta in linea con il trend ASMR (molto diffuso su YouTube), che predilige voci sussurrate e suoni pacati e gradevoli per evocare una sensazione di relax e piacere mentale. Barilla ha voluto giocare anche su questo: una loro pubblicità, pensata per Spotify, valorizza il suono del brodo che bolle in pentola.

Poi ci sono i brand che, per suscitare sensazioni e stati d’animo da ricollegare ai propri prodotti, creano playlist a tema.
Gucci, ad esempio, le utilizza per fornire un’identità sonora ai suoi prodotti, dai profumi (che hanno bisogno di emozioni forti per veicolare un valore che a distanza appare impalpabile) alle nuove collezioni.

In un mondo in cui i brand non sono più solo distributori di prodotti o servizi, ma anche di contenuti esperienziali, creare playlist per i propri clienti permette al marchio di avvicinarsi al consumatore, diventando parte della sua vita quotidiana, anche (e soprattutto) nel momento stesso in cui quest’ultimo interagisce con i prodotti, come nel caso delle playlist di Barilla.

Vantaggi del sound branding

Per quanto esista da sempre, il sound branding sta acquisendo sempre più rilevanza nel mondo della comunicazione.
Fra le ragioni dietro a questa tendenza, possiamo evidenziare:

  • l’overload di messaggi pubblicitari visivi che passano ormai inosservati;
  • l’incremento delle tecnologie voice e la crescente rilevanza della componente audio nella produzione di contenuti (podcast, etc);
  • lo sviluppo dell’holistic marketing, volto a stimolare tutti e 5 i sensi;
  • le conferme del neuromarketing in merito all’impatto del sound branding nell’esperienza del consumatore.

Quali sono, quindi, i vantaggi effettivi di questa strategia?
1. Il suono attira l’attenzione dei consumatori amplificando l’effetto dell’immagine o suscitando una reazione indipendentemente da questa.
2. È stato certificato che esiste un forte legame tra suono e memoria. Il suono funge dunque da fattore di brand recognition, permettendo ai marchi di farsi riconoscere e di farsi ricordare. In questo senso, il sound branding permette a un marchio di rafforzare e valorizzare la propria identità purché il suono risulti complementare a tutti gli altri elementi che la compongono: immagine, logo, tone of voice, etc. L’identità sonora deve sposarsi perfettamente con l’identità visiva, con la personalità, i valori e il target del brand.
3. Il suono suscita emozioni, evoca sensazioni e favorisce associazioni positive con il brand, veicolando agevolmente i suoi valori. Si tratta di una strategia poco invasiva che mette al centro di tutto il fattore esperienziale. Come dimostra il fenomeno noto in psicologia come “razionalizzazione post-hoc”, le decisioni prese dal nostro cervello sono guidate in prima istanza dalle emozioni: solo successivamente cerchiamo di giustificare le nostre scelte, razionalizzandole. Ecco perché è fondamentale fare leva sull’emozione per guidare la decisione di acquisto del consumatore: in questo contesto, il suono risulta essere un elemento chiave per la comunicazione del marchio.

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Il caso Supreme, quando lo streetwear sfocia nel lusso

22 Settembre 2021

L’iconico logo bianco su sfondo rosso evoca subito alla mente l’eccezionale storia di Supreme, che da piccolo marchio di streetwear si è trasformato in uno dei brand più ricercati al mondo.

Supreme nasce come semplice negozio d’abbigliamento per skater in un periodo, gli anni ‘90, in cui l’immaginario teen era pervaso da capi oversize e accessori in stile hip hop. Il primo, storico store aprì nel 1994 a Soho (New York), facendo parlare di sé grazie a un ampio spazio centrale che i ragazzi potevano utilizzare come pista per gli skateboard.
Un elemento fondamentale era il fatto che solamente gli skaters potessero entrare, mentre il resto delle persone doveva “guadagnarsi il diritto” di poter fare shopping da Supreme (tenete a mente questo concetto, vi tornerà utile più tardi).
Il negozio diventò quindi un punto di ritrovo “cool” per gli adolescenti della città: presto la voce si diffuse in tutti gli Stati Uniti, tanto che già un anno più tardi Vogue definì Supreme lo “Chanel dello streetwear”.
Dal 2000 in poi, il brand è andato incontro a una costante crescita, uscendo dalla nicchia degli skaters per affermarsi come promotore di uno stile di vita underground per teenager e giovani adulti.
Oggi Supreme è un brand affermato a livello globale, dal valore di oltre 2 miliardi di dollari.
Qual è la strategia dietro al suo successo? Scopriamolo insieme!

Brand awareness

Sin dai suoi primi anni di attività, Supreme ha apposto il suo logo non solo su cappellini, magliette, felpe e adesivi, ma sui prodotti più svariati: dalla canoa al flipper, fino alla trombetta da stadio.

Questa grande varietà ha permesso a Supreme di far conoscere il proprio logo, affermandosi come brand peculiare proprio grazie all’approccio non convenzionale nella scelta dei prodotti brandizzati, che diventano richiestissimi. La brand awareness generata da quest’operazione commerciale si è tradotta nella possibilità di raggiungere una fascia di prezzo alta, giustificata dall’aura di unicità che caratterizza gli item e quindi lo stesso marchio.

Effetto scarsità

Una delle strategie più comuni nel marketing dei marchi di lusso sfrutta l’effetto scarsità, individuato dallo psicologo Robert Cialdini negli anni ‘80: secondo questo bias cognitivo, siamo propensi a credere che un prodotto abbia un valore superiore solo perché risulta disponibile in quantità limitate. Aderendo a questo principio, Supreme rilascia soltanto una decina di capi o accessori esclusivi ogni settimana. La tiratura limitata dei pezzi causa un esaurimento quasi istantaneo, spingendo le persone a fare di tutto pur di potersene accaparrare una copia. Naturalmente, questo fattore influenza anche la rivendita online dei capi, che — nel caso di Supreme — possono raggiungere cifre superiori del 1200% rispetto al prezzo di listino.
Se riuscire ad acquistare online risulta difficile, avere la chance di farlo in negozio lo è ancora di più, dato che per partecipare alla new release devi registrarti attraverso un form che, oltre a essere intasato da milioni di utenti che mandano in down il sistema, resta disponibile solo per poco tempo. Perfino la newsletter che informa in anticipo delle nuove uscite è riservata a pochissimi indirizzi, scelti secondo modalità misteriose — una vera e propria eccezione, in un mondo in cui i brand sono alla costante ricerca di contatti per le loro mailing list.

Co-branding

Negli anni ‘90, le collaborazioni di Supreme con gli skater più famosi del momento riuscirono a posizionare il marchio come promotore della moda e dell’estetica underground.
Nel tempo, il brand è uscito dalla propria nicchia per abbracciare altri marchi d’abbigliamento: partendo da quelli sportivi (Nike, Adidas) e streetwear (Levi’s, Vans), Supreme arrivò a “squarciare” il mondo dell’Alta moda con la nota collaborazione con Louis Vuitton.

L’efficacia del co-branding di Supreme sfocia infine al di fuori del settore abbigliamento grazie a collaborazioni con Oreo, Colgate e Moka, fra gli altri.
Le collaborazioni permettono al brand di ottenere una maggiore awareness, giocando sull’effetto scarsità con prodotti in edizione limitata ancora più esclusivi in quanto co-brandizzati.

In questo modo, Supreme riesce a espandere il proprio pubblico e i propri valori senza mai perdere la sua identità, caratterizzata da un’estetica che, pur sfociando nel lusso e nel mainstream, rimane sempre profondamente underground.

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Co-creazione di valore fra brand e cliente: il caso IKEA

21 Settembre 2021

Quale brand vi viene in mente se vi parliamo di oggetti coloratissimi dai nomi impronunciabili, matitine omaggio e polpette svedesi?
Avete indovinato: IKEA!

Grazie alle sue particolarità, il colosso nord-europeo è riuscito a distinguersi nella massa grigia dei suoi competitor, guadagnandosi un posto saldo nel nostro immaginario da oltre 20 anni.
La principale caratteristica di IKEA, presente nelle barzellette degli anni ‘00 così come nei meme di oggi, è il fatto che i suoi mobili vadano montati. Oggi vi spieghiamo come e perché questa scelta ha decretato il successo dell’azienda, facendo luce sui vantaggi della co-creazione di valore fra brand e cliente.

Fatica e amore, lo studio

Partiamo da ‘The “IKEA Effect”: When Labor Leads to Love’, studio del 2011-2012 dell’Università di Harvard a cura di Michael I. Norton, Daniel Mochon e Dan Ariely. La ricerca prende spunto dal fallimento dei primi preparati istantanei di torte degli anni ’50: si ipotizzò che vendettero poco perché erano troppo facili da realizzare, rendendo superfluo il lavoro delle casalinghe. Per questo motivo, l’azienda produttrice decise di cambiare la ricetta in modo che richiedesse l’aggiunta di uova. La richiesta di una partecipazione attiva, seppur minima, si rivelò fondamentale nel successo del prodotto, tanto che — ancora oggi — tutti i preparati per torte richiedono l’aggiunta di almeno un ingrediente.
Alla base di questo fenomeno c’è quella che diversi psicologi definiscono “giustificazione degli sforzi”, ovvero l’idea secondo cui quanto più sforzo mettiamo nel perseguire un obiettivo, tanto più saremo orgogliosi e appagati nel vederlo prendere forma. IKEA sfrutta questo bias cognitivo promuovendo un rapporto stretto fra consumatore, oggetto e brand.

Co-creazione di valore: vantaggi

Risparmio

La co-creazione di valore permette all’azienda di delegare gran parte del lavoro al cliente finale, risparmiando sui costi di fabbricazione.

Conoscenza

Offrire la possibilità di personalizzare il bene permette al brand di acquisire informazioni strategiche in merito alla preferenze e alle abitudini dei propri clienti.

Fidelizzazione

La fase di montaggio diventa parte integrante del valore del bene acquistato e la sua buona riuscita culmina in una profonda soddisfazione personale da parte dell’acquirente. Questo aumenta la fidelizzazione del cliente, che — essendo coinvolto in prima persona — può sentirsi in parte responsabile del successo del brand, fino a diventarne ambasciatore.

Disponibilità a pagare

Il processo di co-creazione intensifica il legame con l’oggetto in questione, per il quale il cliente sarà disposto a pagare un prezzo più alto rispetto a un esemplare equivalente, ma preconfezionato.

Co-creazione di valore: consigli per i brand

Il lavoro richiesto al cliente deve essere semplice, ma non troppo. Il compito deve richiedere un certo impegno per far sì che l’acquirente si senta coinvolto e quindi utile alla causa, ma tale mansione deve essere “fattibile” e spiegata in modo chiaro. Fornire una certa autonomia nelle scelte di personalizzazione del cliente permette infine di scongiurare gli effetti del self-serving bias, ossia quel meccanismo mentale per cui si tende ad associare le vittorie a noi stessi e i fallimenti agli altri — al brand, in questo caso. Al contrario, un maggiore coinvolgimento nel processo di creazione porta il cliente ad assumersi la responsabilità in entrambi i casi.

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Psicologia e marketing, la scienza della persuasione

23 Agosto 2021

Le nostre scelte d’acquisto sono profondamente influenzate da stimoli di natura psicologica. Fra gli studiosi che si sono occupati di questa correlazione, il più noto è forse Robert Cialdini, psicologo e professore di marketing che ha forgiato 6 “armi” che permettono ai marketers di affinare l’arte della persuasione. Farne uso non significa manipolare i clienti, ma capire come entrare in contatto con loro.
“Perché una richiesta formulata in un certo modo viene respinta, mentre una richiesta identica presentata in maniera leggermente diversa ottiene il risultato voluto?”, si chiede Cialdini.
La risposta è nel suo libro Le armi della persuasione (1984), che dopo quasi 40 anni continua ad essere un punto di riferimento per ogni tipo di studio inerente il collegamento fra marketing e psicologia, a testimoniare quanto non sia l’interiorità degli individui a cambiare nel tempo, ma il contesto che la circonda.

Robert Cialdini: le 6 armi della persuasione

Ogni giorno facciamo decine di scelte: il nostro cervello avrebbe bisogno di elaborare un elevato numero di dati per gestirle al meglio, ma non ha abbastanza tempo per farlo, per cui va alla ricerca di “scorciatoie” per velocizzare il processo decisionale senza spendere troppe energie. Queste scorciatoie diventano leve di persuasione universali, in grado di influenzare il comportamento di tutti gli esseri umani.

Reciprocità

Il concetto è semplice: quando riceviamo qualcosa, ci sentiamo in dovere di ricambiare. Cialdini afferma che le mance di un ristorante aumentano quando il cameriere omaggia i suoi clienti di una caramella, accompagnando il gesto con una frase che li faccia sentire speciali (“Ecco un omaggio per i nostri clienti più affezionati!”). Vale anche per il rapporto fra consumatori e brand: l’azienda deve essere la prima a fare un piccolo gesto nei confronti dei suoi clienti, qualcosa di personalizzato e inaspettato. Nella lead generation, l’omaggio può essere una risorsa gratuita, ad esempio un ebook, in cambio dell’indirizzo email del cliente.

Riprova sociale

Ecco un altro assunto sempre valido: quando siamo incerti sul da farsi, scegliamo quello che hanno già scelto gli altri.
Ad esempio, se cerchiamo un ristorante in una città che non conosciamo, saremo più propensi a recarci a un locale pieno di gente rispetto a uno completamente vuoto: il nostro cervello decide che, se molte persone hanno scelto quel posto, vuol dire che si mangia bene.
Allo stesso modo, saremo propensi a recarci nel ristorante che ha le recensioni migliori su Tripadvisor.

Scarsità

Un’altra verità assoluta: una cosa ci attrae di più quando la sua disponibilità è limitata. “Le persone sembrano più motivate ad agire dal timore di una perdita che dalla speranza di un guadagno di pari entità”, spiega Robert Cialdini. È la stessa logica che ci spinge a interrompere la telefonata che stiamo facendo per rispondere ad un’altra chiamata che arriva nel frattempo: abbiamo paura di perdere questo secondo contatto, quindi siamo disposti a “mettere in pausa” il primo, che in quel momento è perfettamente accessibile. Allo stesso modo, i clienti sono molto più interessati a quello che potrebbero perdere dalla mancanza del prodotto rispetto a quello che potrebbero guadagnare dalla sua presenza. Ecco spiegato l’appeal dei prodotti in edizione limitata e l’impatto psicologico di avvisi come “Solo una camera disponibile” oppure “Altre 10 persone stanno guardando questa stanza” quando stiamo scegliendo un albergo online.

Coerenza

In poche parole: se abbiamo preso una decisione, non cambieremo rotta. Pur di non apparire incoerenti, resteremo fedeli a una decisione presa in precedenza. Ad esempio, uno studio americano ha dimostrato che il tasso di perdita di appuntamenti in ospedale si riduce del 18% se si chiede ai pazienti di scrivere loro stessi la data sul biglietto promemoria.

Nel marketing, il concetto di “soddisfatti o rimborsati” giova di questa coerenza: è prevedibile che solo un numero trascurabile di clienti ne usufruirà, mentre la maggior parte degli acquirenti vorrà mantenersi coerente con la scelta d’acquisto, anche qualora non risultasse completamente “soddisfatto”.

Autorità

Questa leva psicologica ci spinge ad assecondare le richieste fatte da persone autorevoli o competenti nel loro settore. Ecco spiegata l’enfasi su elementi che mettono in luce il valore del prodotto o del servizio, come la pergamena di laurea esposta nello studio del dentista, o l’approvazione di un dentifricio da parte dell’Ordine dei Medici ed Odontoiatri. La scelta del testimonial può anche basarsi sul rapporto di fiducia e familiarità che questo ha stretto con i nostri potenziali clienti, al di là delle competenze del soggetto – lo vediamo spesso nel caso degli influencer.

Simpatia

La simpatia, volente o nolente, influenza molte delle nostre scelte di vita: siamo naturalmente predisposti ad assecondare le persone che ci piacciono e a contrastare chi non ci piace. Nel caso del marketing, far risultare “simpatico” un brand richiede una buona dose di creatività e una profonda conoscenza del proprio pubblico di riferimento, in modo da sintonizzarsi con la loro visione del mondo, con i loro sentimenti e desideri. Detto questo, è fondamentale tenere a mente che nella vita, così come nel marketing, non si può stare simpatici a tutti…

La settima arma: l’unità

In una recente intervista, Cialdini ha svelato di aver individuato una nuova leva universale di persuasione: l’unità.
“L’idea che condividiamo un’identità con qualcun altro fa sì che vogliamo dire di sì alle persone con cui condividiamo quell’identità in misura maggiore rispetto a quelle che sono al di fuori di tale condivisione”, spiega lo psicologo.
Tale “comunione d’identità” può trovare compimento all’interno delle community online, come i gruppi di Facebook o di Telegram. Creare una comunità organizzata intorno al proprio brand può risultare particolarmente fruttuoso, purché il legame venga “coltivato” nel tempo con contenuti esclusivi e altro materiale che possa suscitare un senso di appartenenza ed esclusività nei suoi membri.

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