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News dal Web

Link building nel 2019: una strategia ancora valida?

18 Luglio 2019

Croce e delizia di ogni SEO, la link building è una delle strategie per l’ottimizzazione più datata. O forse converrebbe dire longeva? Già, perché in ogni piano SEO canonico, questa parte è tuttora imprescindibile. Certo, Google si evolve, e cambiano – di conseguenza – pure le modalità di fare search engine optimization, ma la link building sopravvive. Anche oggi, nel 2019, con qualche accorgimento e attenzione in più.

Il backlink è naturale

Per Google, “a natural backlink is a good link”. E anche per noi. Infatti, siamo al corrente che Google apprezza particolarmente ciò che è per lo più organico e che, quindi, risponde in maniera non strategicamente commerciale alle richieste di un utente che naviga nel suo vasto mare. Di conseguenza, anche la link building non può esimersi da questo diktat.

Secondo Search Engine Journal, ecco la formula perfetta per un link naturale:

  • non ha parametri di tracciamento;
  • non appartiene a  contenuti sponsorizzati o a pagamento;
  • non usa un reindirizzamento tramite JavaScript e non è legato in alcun modo a strumenti di monetizzazione.

E i link non naturali?

Sempre Search Engine Journal ci dà una definizione di unnatural link molto lampante: si tratta di link provenienti da risorse puramente a pagamento, che possono essere collocati, tracciati o monetizzati attraverso programmi di affiliazione, campagne CPC, influencer o script di monetizzazione. E attenzione: se seguiti, questi link potrebbero potenzialmente portare a una penalizzazione da parte di Penguin, poiché non sono considerati come organici, nella maggior parte dei casi.
Quali sono i collegamenti non naturali, in soldoni?

  • Link con parametri di monitoraggio come sorgente;
  • link all’interno di contenuti sponsorizzati su un sito (i motori di ricerca generalmente ignorano chi ha pagato per il contenuto da inserire);
  • link provenienti dai siti che utilizzano gli script di monetizzazione;
  • link all’interno di codici come reindirizzamenti in uscita e in altre tecniche mappabili.

Le strategie di controllo aiutano i link a… essere più buoni

Non c’è nulla di giusto o sbagliato: puoi scegliere, in base alle strategie e agli obiettivi di brand, quali link scegliere. L’importante è non dimenticare mai di fare un controllo sull’andamento dei backlink che hai deciso di includere nella tua strategia, sia essa organica o dipendente da un media planning: esistono molti tool per farlo – chiamati “backlink audit tool” –  di facile impostazione che ti permetteranno di raccogliere i link afferenti per poi fare un check, monitorandone la loro resa per decidere se mantenerli o sostituirli. Ricorda che, infatti, puoi sempre richiedere al proprietario di un sito di rimuovere “quel link” in caso tu reputassi il traffico o la qualità del suo sito scarsa, o non pertinente con la tua attività.

Nel 2019, quindi, il contenuto è ancora re, e ce lo dimostra chiaramente il sovrano dei motori di ricerca: il nostro consiglio è quello di concentrarsi sempre sulla qualità piuttosto che sulla quantità. Perché questa semplice regola, il cui sicuro successo può necessitare di più tempo, protegge il tuo sito da penalizzazioni. E, ancora più importante, concentrarsi sulla qualità può aiutare a portare costantemente lettori in target, persino rilevanti e autorevoli, futura fonte di nuovi backlink e traffico, attraverso i siti di riferimento.

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Filed Under: News dal Web, SEO Tagged With: link building

“Solving fake news, for good”: Twitter e l’AI contro la cattiva comunicazione

26 Giugno 2019

“Solving fake news, for good”. Una frase che racchiude un intero mondo: quella dell’intelligenza artificiale applicata alla sconfitta delle fake news. Il pay-off è quello ideato da Fabula AI, giovanissima azienda start-up nata nel 2018 in Inghilterra ma che ha già stretto un importante patto salvifico con Twitter proprio in merito alla possibilità di intercettare le notizie non veritiere e le loro fonti di trasmissione fermandone e indagandone la diffusione. Una notizia, questa, che corre tra le fila del web dai primi giorni di questo caldo giugno e che annuncia una tecnologia apparentemente in grado di risollevare le sorti del social dell’uccellino blu, la cui crisi cronica di nuovi iscritti è stata decretata circa due anni fa come irreversibile. Ma oggi si apre un grande spiraglio: perché proprio Twitter diventa il protagonista di questo studio applicato? Perché questo social è il prediletto – per la sua brevità, e per la nutrita comunità che lo compone – di stampa, giornalisti, editori e case editrici. Ruoli e professioni che devono quotidianamente difendersi dalle fake news.

Machine graph learning contro le fake news

Precisamente in data 3 giugno, Twitter ha annunciato di aver acquistato questo format di Fabula AI una tecnologia chiamata “graph deep learning” in grado di identificare i contenuti non veritieri con precisione e profondità attraverso una tecnica che si basa sull’analisi qualitativa dei grandi numeri di dati: relazioni, connessioni, contenuti che circolano sul web e che vengono condivisi su Twitter.
Gli ingegneri di Fabula AI sono stati piuttosti scevri nella spiegazione dei vari step di cui si compone questa tecnologia di intelligenza artificiale, effettivamente troppo particolareggiati per chi non è ferrato in ingegneria informatica: quello che importa, è che la tecnica sviluppata dalla startup si concentra sul “come” avviene la diffusione della cattiva informazione anziché soffermarsi, come fa la maggior parte dei sistemi che combattono le fake news, sul contenuto stesso degli articoli.

Come funziona questa tecnologia?

Questa tecnologia si basa su una serie di algoritmi che sono letteralmente in grado di apprendere da giganteschi set di dati generati nel tempo dagli utenti sui social network. Fabula AI parte da un postulato: tutti i contenuti “fake” che diventano virali si diffondono con una velocità vorticosa rispetto alle notizie vere e non alterate. Inoltre, questo sistema analizza anche i meccanismi di condivisione: in questo modo si può intercettare l’argomento sul quale intervenire, poiché Fabula AI, infatti, ha paragonato la modalità di diffusione sui social e nel web dell’informazione errata come a un media come a una malattia si diffonde, cercandone una “cura” in grado di impedirne il dilagare.

“Migliorare la salubrità delle conversazioni” è l’altro punto su sui si sofferma il creatore di Fabula AI – società il cui co-fondatore è l’italiano Fabrizio Monti -. E così, dopo Google e Facebook, anche l’uccellino blu comincia il suo cammino virtuoso verso una comunicazione migliore e più veritiera. I risultati? Li vedremo tra qualche mese. E, infatti, Twitter ha annunciato che “l’acquisizione di Fabula AI aiuterà a sviluppare le nostre capacità interne di machine learning, grazie alle competenze del team di ingegneri e sviluppatori” che si stanno occupando di nutrire e far crescere questo portentoso sistema di intelligenza artificiale al servizio della comunicazione umana.

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Google Discover: la nuova app di Mr. G. sbarca in Italia

19 Giugno 2019

Google è un portento nel semplificare la vita, grazie alle sue app utili nell’organizzazione del tempo, delle attività – le famose task – e grazie anche a strumenti in grado di selezionare argomenti e notizie dai vari feed del web, non solo evitando di incappare nei depistaggi delle fake news (a proposito, hai letto il nostro articolo sul tema?) ma calibrando al meglio la tipologia del flusso informativo per una proposta di temi realmente in target con i nostri gusti, le nostre ricerche, le nostre necessità. E Google Discover è nato proprio per questo!

Google Discover: basta uno “swipe” per accedere!

Stanchi del solito feed? Google Discover lo sostituisce, anzi, apporta molto di più. Basta infatti fare “swipe” verso destra – nella schermata del tablet o dello smartphone con sistema operativo Android – dalla home di Google, e il gioco è fatto: si aprirà un feed personalizzabile, dove si potranno inserire gli interessi più in linea con noi, le nostre giornate, le nostre necessità. Infatti, i “tre pallini” presenti in alto, sulla destra, apriranno una funzione denominata “personalizza”: qui si potranno seguire tantissimi “argomenti” – ovvero i “topic” della versione anglosassone -, creando così una sorta di routine informativa che rappresenta un reale aiuto nella vita quotidiana.

Google Discover sembra fatto per la quotidianità:

Le nostre mattine sono davvero movimentate. Il tempo di un caffè e stiamo già aprendo le mail, controllando il tragitto da compiere, sbirciando alla task list delle cose da fare durante la giornata, cercando di ricordarci appuntamenti e riunioni. Google Discover viene in soccorso di ogni inguaribile persona multitasking: personalizzando l’app, infatti, possiamo scegliere di ottenere aggiornamenti in tempo reale sul meteo, sul livello di traffico, sulle news di politica, tech, economia, moda, il tutto tramite notifiche che arrivano da Google o dalle fonti autrici del contenuto, suddiviso in folder come “news”, “promemoria” o “tragitto giornaliero”. Mica male!

Google Discover e l’assistente virtuale:

Effettivamente, rimuginandoci un po’ su, viene da chiedersi per quale motivo Google abbia lanciato questa release nel 2018 in America, e solo nel 2019 in Italia , dal momento che Discover ha un funzionamento basato su feed, estremamente semplice e intuitivo.
Per farsi perdonare, però, Mr. G. ha collegato l’app all’assistente virtuale.
Infatti, Google Assistant – il grillo parlante di Google che, volendo, è persino in grado di prenotare un ristorante! – e scaricabile attraverso Google Home crea, interagendo con Discover, un’affidabile routine quotidiana: facendo “tap” su “aggiungi”, contraddistinto dal simbolo “+”, troverai il campo “il mio assistente…” e lì basterà aggiungere comando – un’azione, come la sveglia per esempio –  e l’orario di esecuzione. Non solo: puoi aggiungere anche contenuti multimediali come musica. Perfetto, quindi, per riprodurre la tua playlist preferita!

Google Discover è conversazione umana:

Discover può ottimizzare i contenuti? E – soprattutto – questi contenuti che io scelgo, possono divenire utili anche agli altri, in un meccanismo di hub? A questo risponde la guida di Search Console: “Il ranking dei contenuti in Discover dipende da un algoritmo che gestisce ciò che secondo Google un determinato utente potrebbe ritenere più interessante. Il ranking dei contenuti considera la corrispondenza tra i contenuti di un articolo e un argomento di interesse indicato dall’utente, pertanto non ci sono metodi che consentono di migliorare il ranking delle tue pagine, se non quello di pubblicare contenuti che ritieni possano interessare agli utenti.”

Quindi, un funzionamento human-friendly che si basa sull’informazione utile e tracciabile, rispettando le normative di Google News, e che ci permetterà di essere utili agli altri utenti dell’app all’insegna di comportamenti che premiano la qualità e l’ottimizzazione, non solo delle nostre giornate, ma del mondo web, sempre più votato a contenuti che rispondano alle necessità e ai bisogni delle persone.

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Social Media: quando gli statement fanno di te un brand

29 Maggio 2019

L’orizzonte della fidelizzazione sui social è sempre più vicino? The Global Webindex’s flagship report on social media sembra proprio affermare di sì, con i suoi dati, secondo i quali il 22% dei consumatori dichiara di seguire fedelmente almeno un brand e secondo cui il 42% degli utenti dichiara di usare – finalmente – i social per cercare nuovi prodotti entrando in contatto con nuovi brand. Sempre secondo il survey, il 58% di questi utenti vengono classificati come “FOMO”, ovvero consumatori “fear of missing out” e che, quindi, non vogliono perdere nessuna novità. Ma se, dietro a questi dati, il fattore umano ormai fosse importante quasi quanto quello della usability, diventando il mattone che poggia ed eleva le fondamenta dettate da user experience, dal customer care, e dall’esperienza di brand?

Sì: questi dati “ispirano” i social media strategist, spingendoli sempre un po’ più in là in quello che è il premiare i propri follower – è il caso di Trussardi, come ci racconta Franz Russo, con la case history di “Dreambox”, che sta registrando un’ascesa reale su Instagram -. Ma, sempre questi dati, riportano direttamente alle scelte e alle prese di posizione messe in campo dai brand: infatti, molti di essi, soprattutto nel campo beauty e moda, dimostrano quella che potremmo definire come “una spiccata personalità” e una grande, grandissima voglia di interfacciarsi con la vita reale dei propri utenti. Le loro necessità. Le loro aspettative. Il loro rispetto.
Un esempio? Ce lo dà Zalando Italia.

Zalando e la scelta “curvy”

Lo scorso 11 gennaio, sulla pagina Facebook del brand e-commerce tedesco, è apparsa una la nuova linea di intimo di Calvin Klein indossata da ragazze bellissime, e vere.
Si direbbe, oggi, “curvy”. Nulla di trascendentale, insomma.
E invece, gli hater non hanno tardato ad arrivare, scatenandosi nei commenti con giudizi poco ortodossi nei confronti delle ragazze. Di fronte a questo esempio di cyber bullismo – perché di questo si tratta – la risposta del marchio è stata lampante:

“Da Zalando ci piace rappresentare e RISPETTARE la bellezza autentica e la diversità delle persone. Allo stesso modo, rispettiamo opinioni e gusti diversi dai nostri e il diritto di esprimerli.
Tuttavia, non accettiamo che la nostra pagina diventi un luogo per diffondere messaggi di odio, offesa o disprezzo: per questo motivo, siamo stati costretti ad oscurare alcuni commenti.”

Esattamente: in barba a ogni netiquette e a ogni policy di gestione della crisi e del community management, Zalando sceglie da che parte stare cancellando i commenti più offensivi.
Quando un brand è in grado di mettere i famosi “puntini sulle ‘i'” per ri-educare e fornire un contributo, attraverso la sua opinione, il web, dando al contempo sicurezza ed eticità all’utente che sicuramente si identifica maggiormente nella modella curvy, che in quella skinny. Un caso non isolato questo, che ha già portato il brand a una crescita esplosiva del traffico e degli acquisti: gli “statement” di Zalando infatti vanno ad accrescere e a rafforzare un customer care accurato, che ascolta culturalmente le esigenze dei consumatori, paese per paese, proprio come testimonia questa infografica.

Quando “dire la propria” significa essere un brand

Prendiamo Dove: un marchio beauty che ha puntato il tutto e per tutto sulla difesa dell’essere donna, e di esserlo nelle sue numerose sfumature.
Oppure, prendiamo Ducati che – in barba al machismo – ha di recente presentato un nuovo concept della campagna pubblicitaria, sostituendo le bellissime modelle con i meccanici e i centauri, in posa sulle moto, con tanto di tacchi e pose plastiche.
Tra realtà e ironia, sembra che la comunicazione del marchio oggi punti sempre più su una necessità di “dire la propria”, uscendo dai cliché abituali per abbracciare un sentire comune, vicino agli utenti reali: una brand experience che comunica con chi acquista, una necessità di ritornare a una comunicazione virtuosa, andando contro a comportamenti nocivi ormai largamente diffusi nella rete.

E questo, come social media strategist, è il consiglio che ci sentiamo di darvi: sui social media corre l’opinione, e la grande possibilità di dimostrare a tutti che, dietro a un’esperienza web perfetta, che nasce tra le pagine di un sito o tra i carrelli virtuali di un e-commerce, batte un cuore vicino a quello degli utenti. Perché la fidelizzazione parla un linguaggio umano.

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Neuromarketing: il potere della scienza applicata al marketing

22 Maggio 2019

Fondere il marketing tradizionale con la neurologia e la psicologia: una particolare “mistura” che chiamiamo neuromarketing. Una commistione tra scienza medica ed economia ormai divenuta una teoria – scientifica! – di riferimento per il marketing e le sue sfumature, tra retail fisico e web, grazie alle possibilità che essa offre nell’individuare canali di comunicazione che mirano dritto dritto ai processi decisionali d’acquisto. Perché il neuromarketing si prefigge un obiettivo tanto visionario quanto concreto: illustrare ciò che accade nel cervello delle persone, prima che queste diventino utenti, o clienti, analizzando alcuni stimoli indotti da prodotti, brand e advertising, per creare strategie forti il cui obiettivo porta direttamente… a un click sul bottone “check out”.

Alla base del neuromarketing c’è una ricerca:

Fu Ale Smidts, ricercatore olandese, a occuparsi per primo di neuromarketing, oltre che a coniarne il nome: correva l’anno 2002. E proprio Smidts scopri come alcune zone del sistema cerebrale umano siano decisamente più attive durante l’esecuzione del processo decisionale – vere e proprie lampadine a intermittenza – legato all’acquisto. Come scoprì tutto questo? Attraverso sistemi di risonanza magnetica funzionale ed EEG, ovvero encefalogrammi, per dare una spiegazione neurocognitiva agli stimoli più puramente emozionali. La finalità dell’esperimento? Quello pubblicitario e strategico, per aiutare i big brand a determinare l’appeal e la potenza comunicativa dei loro prodotti e il percepito della loro comunicazione.

Due casi-test esemplificativi

Martin Lindström è l’autore di “Buy-ology”, best seller del campo marketing e vendite: nella sua opera, l’autore ha dedicato ampio spazio a un test che vede protagoniste le controindicazioni riportate sui pacchetti di sigarette: attraverso l’intervista a un campione di fumatori impenitenti, a cui è stato chiesto quali effetti avessero questi messaggi, è stato dimostrato che, sebbene molti di loro avessero dichiarato un “ripensamento” sul fumo, i loro centri nevralgici, monitorati da un EGG, dichiaravano una forte, fortissima voglia di fumare.

Anche il famoso Pepsi Challenge Test costituisce una splendida allegoria di quello che è il potere del neuromarketing: ai consumatori-campione è stato chiesto di scegliere tra due tazze bianche contenenti, rispettivamente, Pepsi e Coca-Cola. I risultati sono stati stupefacenti: la maggioranza di chi ha preso parte all’esperimento ha asserito di preferire la Pepsi, senza sapere cosa ci fosse in realtà nelle tazze. Ma non solo: quando è stato loro domandato se avessero bevuto Pepsi o Coca-Cola, quasi tutti hanno detto di aver bevuto quest’ultima. Perché? Perché ha vinto l’immagine di brand più forte, con oltre un secolo di ADV serrata e di riconoscibilità assoluta. Quando la fedeltà al marchio va oltre la percezione del reale.

Neuromarketing: quali campi di applicazione?

Pensiamo all’ecommerce, ma pensiamo anche alle strategie di re-branding, o di branding “da zero”, fino alla user e customer experience: tutto questo presuppone una visione del marchio, dei suoi valori, della sua unique selling proposition, e della sua capacità di ammaliare che parte proprio dall’impatto. Infatti, le persone ricordano un marchio, e l’esperienza che questo sa regalare, quanto più questo è in target con i loro bisogni, le loro necessità, i loro gusti, anche indotti. E, il rovescio della medaglia, vede protagonisti i brand, che hanno ormai la grande responsabilità di conoscere alla perfezione il proprio pubblico. Perché non utilizzare, dunque, all’interno delle proprie strategie di branding, che comprendono sito web, esperienze di navigazione e di acquisto, campagne pubblicitarie, gestione dei social media, e molto altro, il coinvolgimento emotivo? Non parliamo di sola e pura emozionalità, ma anche di suscitare un’urgenza di acquisto: e tutto questo è applicabile anche nel settore retail e shop concreto, non solo a ciò che è legato al mondo web.

Come fare? Beh, laddove non sia possibile testare la risposta cerebrale agli stimoli con un EEC dei propri clienti, cosa decisamente non facile, possiamo dedicare un po’ del nostro tempo ad alcuni testi che aiutano a comprendere e ad applicare modelli di neuromarketing alle strategie: un titolo che ha spopolato in Siks ADV è certamente “Brainfluence” di Roger Dooley che, attraverso 100 esempi pratici, propone esperimenti ed esempi di “decision pattern” tutti da applicare.
Non ci resta che augurarvi buona lettura!

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Kids influencer e kids digital advertising: un fenomeno in crescita

2 Maggio 2019

YouTubers: ve li ricordate? Ne abbiamo parlato, nei mesi scorsi, in questo post: giovani, famosissimi, a livello internazionale, che tutto sanno e tutto conoscono di beauty, di gaming, di web series e, per questo motivo, sono specchietti per le allodole davvero irresistibili per ogni big brand che si rispetti, tanto da finire sulle pagine di Forbes per introiti e traffico.

Oggi, proviamo ad alzare l’asticella e guardiamo alla nascita di un nuovo fenomeno che ruota sempre attorno l’universo digital advertising: stiamo parlando dei cosiddetti Kids Influencer; ovvero bambini – giovanissimi, spesso in età da scuola primaria – che recensiscono prodotti perfetti per la loro età, come giocattoli, vestiti principeschi e videogames, guidati da mamma e papà nel mondo dell’influencer marketing, facendo faville tra post di Instagram.
E poco importano le limitazioni imposte dai social per quanto riguarda l’accesso alle piattaforme da parte dei minori di 14 anni.

La generazione “Alpha”

Dopo i millenials e la “Z generation” ecco che arriva la “Generazione Alpha”: un nome che lascia poco all’immaginazione. Infatti, con “Generation Alpha si sottendono i bambini nati, e che nasceranno, dal 2010 al 2025: ovvero, la prima generazione totalmente appartenente al 21° secolo. Figli dei Millennials, la Generation Alpha utilizza smartphone e tablet in modo totalmente naturale, perché sono nati insieme a iPhone, iPad e varie applicazioni, e stanno crescendo con la voce – familiare quanto quella di un nonno – di Siri, di Alexa e di Google: per il mondo degli Alpha, infatti, interagire con l’Intelligenza Artificiale e gli assistenti vocali è, semplicemente, naturale. Così come è naturale per loro preferire YouTube Kids alla semplice vecchia TV.

Il quadro tracciato dal Kids Digital Advertising Report

Il mercato pubblicitario non può dunque ignorare la naturale evoluzione delle generazioni, così come non può ignorare l’incredibile opportunità che la generazione Alpha costituisce: e, proprio da questo postulato, parte l’approfondita analisi del Kids Digital Advertising Report, pubblicato alla fine del 2017, dall’agenzia PWC.CO.UK.
Cosa ci racconta questo survey? Eccone un breve sunto:

  • La pubblicità per bambini sotto i 13 anni è una pratica sempre più regolamentata negli Stati Uniti e in Europa: e sono sempre di più i brand dedicati ai più piccoli che mirano a raggiungere, con differenti tecniche di advertising, i “luoghi” del web in cui questi ultimi passano buona parte del loro tempo online.
  • Il report stima, inoltre, che il mercato del kids digital advertising potrebbe raggiungere circa  1,2 miliardi di dollari entro la fine del 2019, supportato dai trend di consumo, dai media dedicati ai più piccini, e dalle intenzioni dei brand di crescere digitalmente, con la consapevolezza che i prodotti “kidtech” siano il nuovo oggetto del desiderio.
  • La diminuzione della visione della TV da parte dei bambini porta allo sviluppo di nuove piattaforme. O meglio, le nuove piattaforme, con YouTubeKids, hanno portato all’impoverimento dei palinsesti televisivi, con conseguente migrazione dell’offerta advertising su questi nuovi canali. Un inventario di prodotti che cambia magazzino, abbracciando il nuovo mondo digitale, nuovi sistemi comunicativi e nuovi linguaggi.

Strategia, emozione, o sovraesposizione?

Baby e Kids Influencer non sono una novità, ma rappresentano un’evoluta emulazione del mondo dei genitori, influencer anch’essi. Prendiamo per esempio la famiglia Ferragni e il piccolo Leone, su cui riflettori e aspettative erano già puntati da prima della sua nascita; oppure contempliamo il mondo USA dove sono sempre di più i genitori che sottopongono ai riflettori di Instagram i loro figli. Basta infatti, una foto emotivamente esplosiva, patinata, e un tag a un prodotto: pochi ingredienti per collegare strategia ed emozione, ricevendo l’attenzione mediatica e dei brand.
Ma parliamo anche sovraesposizione: dal settembre 2018, infatti, l’accesso libero ai social network, quindi senza l’esplicito consenso dei genitori, non può avvenire per i minori di 14 anni.
Eppure, la generazione Alpha sta ugualmente esplodendo sui social visual, dando un contrastante eco a un mercato crescente che punta tutto su di loro.

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