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Social Media

Social Media Listening: cos’è e perché è importante

2 Ottobre 2020

Cos’è il Social Media Listening?

Nella vita di tutti i giorni, saper ascoltare è una dote fondamentale per comprendere a fondo i pensieri e le esigenze delle persone che ci stanno attorno. Questo concetto è centrale nel marketing, in cui la la conoscenza del pubblico di riferimento è la chiave per comunicare con efficacia: per tracciare la strategia più adatta, ci viene in aiuto il Social Media Listening, che comprende tutte le attività volte a individuare, tracciare e analizzare le conversazioni online inerenti un brand, i suoi prodotti e i suoi servizi.

Social Media Listening: perché è importante?

Inizialmente, il Social Media Listening era utilizzato esclusivamente per prevenire e gestire situazioni di crisi. 
In seguito, il marketing ne ha riconosciuto il potenziale strategico e ha cominciato a farne uso per ottenere insight, ovvero informazioni in merito a ciò che gli utenti vogliono e cercano online. Questi dati ci permettono di ottimizzare le campagne marketing e identificare nuovi modi per raggiungere e coinvolgere i consumatori.

Controllare la reputazione online di un brand è quindi fondamentale per comprendere la percezione che gli utenti hanno dell’azienda e dei suoi prodotti, un punto di partenza sulla base del quale impostare le proprie strategie.
Insomma, in un’epoca in cui gli utenti si esprimono liberamente sul web, non abbiamo più scuse: dobbiamo saper ascoltare.

Alla base del Social Media Listening c’è quindi il Social Media Monitoring, attività volta a monitorare ogni menzione del brand e dei prodotti o servizi ad esso associati. Oltre ad hashtag e keywords, si possono monitorare anche intere frasi, ad esempio associando il nome del brand a elementi come “non funziona” al fine di rintracciare eventuali problemi riscontrati dai consumatori.

Come sappiamo, oggi è molto più probabile ricevere domande, opinioni, suggerimenti e reclami su Facebook o su Twitter piuttosto che al telefono o per email: per questo motivo, il Social Media Listening si rivela fondamentale anche a livello di customer service. 
Attenzione, però: sui social, gli utenti esigono tempi di risposta molto brevi. Secondo alcuni utenti Twitter, la risposta dovrebbe arrivare entro mezz’ora, per altri va bene anche dopo un giorno; su Facebook si è più intransigenti: il 29% degli intervistati indica le due ore come limite massimo.

È quindi fondamentale monitorare ogni richiesta al fine di evaderla nel minor tempo possibile.

A questo scopo, è importante prendere in considerazione che, quando gli utenti si rivolgono a un brand, non è detto che utilizzino una menzione diretta (ad esempio, il 30% dei tweet che menzionano il brand non utilizzano il simbolo @), e non è detto che scrivano correttamente il nome dell’azienda: è quindi necessario fare ricerche prendendo in considerazione il nome dell’azienda e i più frequenti errori di battitura ad esso legati.

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Filed Under: Campagne Marketing, Social Media

Creatività dinamiche interattive, il caso McDrive di McDonald’s

15 Settembre 2020

Creatività Dinamiche, cosa sono

Per Dynamic Creative Optimization+ (DCO+), in italiano Ottimizzazione delle Creatività Dinamiche, si intende la personalizzazione di annunci pubblicitari in base ai dati dell’utente.

Le informazioni dinamiche vengono compilate in tempo reale: si tratta ad esempio delle parole del testo, dei colori, delle dimensioni e del posizionamento degli elementi grafici, che cambiano a seconda dell’utente.
Tale personalizzazione è possibile grazie alla raccolta di dati, fra le risorse più competitive del mercato attuale, e alla tecnologia machine learning, che permette agli annunci di cambiare continuamente a seconda delle preferenze e della cronologia di navigazione di ogni singolo utente.

Il segreto sta nel mostrare il messaggio giusto alla persona giusta nel momento e nel luogo giusto, favorendo la conversione senza compromettere l’ampiezza del target raggiungibile.

Creatività Dinamiche, il caso McDrive

A sfruttare i benefici delle Creatività Dinamiche Interattive sono Connected-Stories, OMD e Leo Burnett Company, che lanciano la prima campagna video interattiva di McDonald’s, di cui potete visualizzare una preview a questo indirizzo.

Si tratta di una serie di formati dinamici e personalizzati, in grado di mostrare – a lato del video – alcune delle offerte disponibili, scelte sulla base del comportamento dell’utente e dell’audience di cui fa parte.


SIKS-ADV-Creatività dinamiche interattive-mcdrive-omd

Inoltre, ogni utente ha la possibilità, grazie a una mappa interattiva, di visualizzare il McDrive più vicino rispetto alla propria geolocalizzazione.


SIKS-ADV-Creatività dinamiche interattiv-McDrive3

Con la campagna McDrive, l’azienda dimostra di saper rispondere alle esigenze del pubblico online, che esige una user experience fluida, coinvolgente, personalizzata e interattiva.

Inoltre, la tipologia di campagna permette di monitorare in modo granulare le performance di ogni singola creatività, raccogliendo preziosi insights sull’audience e sul comportamento degli utenti al fine di ottimizzare non solo l’aspetto creativo, ma anche la strategia di investimento lato DV360.

Il caso preso in considerazione apre a possibilità di targeting finora mai sfruttate appieno, soprattutto in Italia, permettendoci di avere un quadro delle strategie da percorrere e sviluppare nei prossimi mesi, e nei prossimi anni.


SIKS-ADV-Creatività dinamiche interattiv-McDrive2

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Coronavirus: quella degli influencer è più di una “semplice influenza”

17 Marzo 2020

Siamo arrivati ad inizio 2020 pensando che la professione “Influencer” fosse arrivata al capolinea. Ci troviamo a marzo, in piena emergenza sanitaria, a constatare invece quanto chi possa godere di un così ampio bacino d’utenza abbia un ruolo chiave nella situazione che questo paese sta attraversando.
Insomma, parafrasando chi tende a sottovalutare l’emergenza legata al Coronavirus, potremmo dire che quella degli influencer è più di “una semplice influenza” e può portare a conseguenze estremamente positive o negative in una situazione così delicata.
Il modo in cui gli Influencer nostrani hanno reagito all’epidemia sono i più disparati: alcuni hanno completamente ignorato la situazione, altri l’hanno sottovalutata con successive scuse e lacrime di coccodrillo.
Non sono mancate le gaffe, ma c’è anche chi ha preso atto della propria popolarità e competenza e ha cercato di rendersi utile.

Veronica Civiero e @ViralVeneto

Partiamo da un caso positivo, quello di Veronica Civiero, Global Solutions Manager presso Facebook che ha sfruttato le sue competenze e la sua influenza per creare ViralVeneto in collaborazione con il Presidente della Regione del Veneto, la Regione Veneto e diversi influencer. L’obiettivo, parte di un progetto più ampio denominato “Viral Italy”, è quello di contrastare le “fake news” attraverso i canali social. Il team di ViralVeneto è in contatto costante con l’Ufficio Stampa della Regione, da cui le informazioni vengono poi “adattate” ai social network e pubblicate su Instagram e Tik Tok.

“È nato tutto per caso”, spiega Veronica Civiero. “Io mi occupo di comunicazione e in questi giorni di emergenza coronavirus mi sono resa conto che sui social i profili delle istituzioni sono poco seguiti, nonostante siano ricchi di informazioni utili. Allora ho preso l’iniziativa e ho parlato direttamente con il governatore Luca Zaia”. Quest’ultimo si è detto entusiasta, arrivando a dichiarare: “Affidiamo agli influencer il piano di rilancio del Paese”.

Chiara Ferragni, la raccolta fondi e l’avvertimento a Kendall Jenner

Che faccia bene o che faccia male, la nostra Chiara nazionale è sempre a rischio attacco, ma in questa occasione ha sfruttato la sua popolarità per una giusta causa. C’è chi la critica, chi afferma che l’abbia fatto solo per ulteriore notorietà.
Resta il fatto che la Ferragni ha dato via ad un progetto che è stato condiviso e supportato da migliaia di persone: una raccolta fondi per la creazione di nuovi posti letto nei reparti di terapia intensiva dell’ospedale San Raffaele di Milano.

Chiara e Fedez hanno donato 100.000€, e moltissimi utenti hanno già effettuato la loro donazione superando in poche ore il milione e cinquecentomila euro. Ad oggi, si è superato di gran lunga l’obiettivo dei 4.000.000 euro.
Sempre Chiara Ferragni, dopo aver invitato i suoi follower italiani a non minimizzare la situazione (“Usate il cervello”), ha lanciato un importante messaggio agli influencer d’oltreoceano, in particolare a Kendall Jenner, una delle tante che aveva bollato il Coronavirus come “una semplice influenza”. Il post di Chiara invita gli americani a non sottovalutare il problema, come abbiamo fatto noi italiani qualche settimana fa: “Pensavamo fosse una fottuta influenza per la maggior parte delle persone, ma abbiamo dovuto imparare nella maniera più dura che è molto più di questo” e conclude con un appello: “Per favore, siamo uniti in questa lotta e non diffondiamo il messaggio sbagliato”.

Le gaffe degli Influencer

Dopo le note di merito, vediamo chi sono i “bocciati” e i “rimandati”.

In principio ci fu il complottismo e il razzismo nei confronti dei cinesi, come nei casi di Aurora Betti, Giulia Calcaterra e Selvaggia Roma.

Poi, quando il Virus ha cominciato a diffondersi in Italia, ci si è divisi fra chi ha colto l’occasione per riesumare l’eterno scontro Nord-Sud (come Elisa De Panicis, che in riferimento al contagio in Lombardia e Veneto afferma che “per una volta il sud ha vinto contro il nord”), chi si fa prendere troppo dal panico e chi sottovaluta troppo la questione.
Decisamente bocciata Victoria Tei, che commenta così l’invito dei media e delle istituzioni a rimanere a casa: “A me non frega niente, io continuo a uscire. Quando morirà una persona di età tra i venti e trenta/quaranta, giovane e in salute, allora lì mi preoccuperò”.
Hanno destato scalpore anche Soleil Sorge e Marco Ferrero, ‘scappati’ ai Caraibi in piena emergenza Coronavirus, e Denis Dosio, che afferma candidamente di essere “scappato da Milano tipo Usain Bolt”.
Criticatissime infine le gaffe di due influencer molto seguite come Chiara Biasi e Chiara Nasti: la prima ha pubblicato lo screenshot di un suo messaggio privato che recitava, in riferimento al virus, “E nessuno che mi sta sul cazzo che muore!”; la seconda si è fatta una manicure a tema Coronavirus, aggiungendo “Fate finta che l’ho preso anch’io”. Entrambe “rimandate”.

Francesco Facchinetti, a capo dell’agenzia di talenti Newco Management, ci tiene a prendere le distanze: “Chiedo scusa per aver reso celebri certi blogger, influencer, che, non avendo nulla nella testa, dicono cose sui social tipo: ‘Ma io me ne vado in giro, tutto questo è esagerato’. Purtroppo queste persone hanno milioni di followers e la colpa è mia. Prenderò provvedimenti”.

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Il Coronavirus contagia la rete, i brand rispondono

5 Marzo 2020

Anche il più tragico fatto di cronaca può trasformarsi in un meme e il 2020 ce lo sta dimostrando alla grande: abbiamo iniziato l’anno con i meme sulla Terza Guerra Mondiale che sembrava imminente, poi è subentrato il Coronavirus con meme prima in versione internazionale e poi “Made in Italy”, per prendersi gioco delle contraddizioni e delle ipocondrie degli italiani.

Si è fatta molta ironia sulle mascherine, sul Virus che riduce i contatti sociali (per la gioia di molti) e sull’igiene che sembra divenuta una priorità solo in vista di una possibile pandemia, con Barbara D’Urso che, in diretta, fa “tutorial” su come lavarsi le mani: meglio tardi che mai!
Al centro dei meme più popolari c’è sicuramente l’Amuchina, con il suo gel igienizzante per le mani, che viene dipinta come la merce più rara e preziosa sul mercato (“Il mio tesssoro!” direbbe Gollum de Il Signore degli Anelli), con battute sui guadagni stellari dell’azienda a fronte di un fantomatico rincaro dei prezzi.

A quest’ultima accusa, Amuchina ha risposto direttamente sul suo sito internet, negando una variazione di prezzo.

Sempre parlando di igiene e di precauzioni, ha causato polemica un tweet della celeberrima Taffo Funeral Services che, ironicamente, auspicava un incremento dei decessi (e, di conseguenza, dei suoi potenziali clienti) per il Coronavirus, giocando sull’ignoranza collettiva con un post che invitava a non lavarsi le mani, a toccarsi spesso naso e bocca, a non coprirsi quando si tossisce.

Insomma, un vademecum di raccomandazioni al contrario che non è stato gradito dal popolo della rete. L’indignazione che cominciava a farsi strada su Twitter ha spinto Taffo a eliminare in fretta il tweet e a dichiarare di voler fare “un passo indietro rispetto alle istituzioni” con un video del responsabile commerciale Alessandro Taffo che debutta con la frase “In tanti ci state chiedendo un post sul coronavirus”, lasciando supporre che sul Coronavirus non si fossero proprio espressi, in un disperato quanto maldestro tentativo di obliterazione, che sembra tuttavia aver dato i suoi frutti (quasi nessuno parla della gaffe).
Gli screenshot comunque parlano chiaro: l’eliminazione del tweet è stato un passo falso in partenza, e Taffo si è comunque vista costretta ad ammetterne l’esistenza, senza tuttavia scusarsi (per la cronaca, anche quest’ultimo tweet è stato eliminato).

Insomma, l’umorismo caustico di Taffo è risultato decisamente fuori luogo in questo periodo di “psicosi collettiva”. A contribuire al clima apocalittico ci sono le sconvolgenti immagini dei supermercati quasi completamente svuotati, saccheggiati in massa come se fossimo all’alba di un olocausto nucleare. Ha destato l’attenzione dei social il fatto che, in mezzo a scaffali quasi vuoti, campeggiassero pile di confezioni di penne lisce avanzate. Questa tipologia di pasta era già stata in passato oggetto di scherno da parte della rete e vederla rimanere invenduta perfino in un’occasione del genere sembra aver confermato a molti quanto le penne lisce siano poco gradite ai consumatori.

Sebbene “l’odio” collettivo per le penne lisce non sia legato a uno specifico brand, una delle immagini più diffuse sui social reca in bella vista il marchio De Cecco, che ha intelligentemente risposto con un post: “Non tutte le #pennelisce sono lisce allo stesso modo: è la trafilatura al bronzo del Metodo De Cecco a renderle squisite!”.

A proposito di brand e di psicosi collettiva, nel resto del mondo non è certo andata meglio: secondo un sondaggio riportato dal New York Post, gli americani sarebbero restii ad acquistare la birra Corona a causa dell’associazione fra il nome del prodotto e il Coronavirus; lo conferma un’indagine di YouGov, il crollo del titolo in borsa (-8%) e milioni di ricerche effettuate su Google. La situazione è tale che l’azienda produttrice si è vista costretta ad emettere un comunicato che smentisce ogni possibile correlazione con il Virus.
Pare che tutto sia nato da alcuni meme assolutamente innocui, che hanno portato ad una situazione purtroppo degenerata in diversi paesi del mondo, che causerà ingenti danni economici al noto marchio di birra: si stimano perdite dei ricavi per circa 285 milioni di dollari.

È chiaro quindi che, in un’epoca in cui la rete riesce ad influenzare in modo così profondo il pensiero dei consumatori, sia necessario per qualunque brand rimanere costantemente informato su ciò che avviene online e sulle ripercussioni che questo possa avere per la propria reputazione, trovando il modo giusto per sfatare una “bufala” o per rispondere all’ironia del web, stando sempre attenti a non esagerare: la “gogna” social, per un brand, è sempre dietro l’angolo.

Noi di Siks possiamo aiutarti a curare la tua reputazione online con strategie mirate di social media marketing, contattaci per ulteriori informazioni.

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Spotify, la musica è cambiata

19 Febbraio 2020

Negli ultimi 50 anni, l’industria musicale è andata incontro a numerosi e profondi cambiamenti, a partire dai supporti di riproduzione musicale: dagli anni ‘70 ad oggi siamo passati dai dischi in vinile alle musicassette, dai cd agli mp3. Adesso, l’ultima frontiera musicale è costituita dalle piattaforme streaming, che permettono di ascoltare tutto senza possedere niente più di un cellulare e un abbonamento a un’app.

La musica al tempo del Cloud

Parlando di servizi di streaming musicale, non possiamo che prendere ad esempio Spotify, il primo e il più utilizzato a livello mondiale, con 248 milioni di utenti attivi al mese.
L’app è nata nel 2008 dall’ingegno di due imprenditori svedesi, Martin Lorentzon e Daniel Ek.
L’idea di base nasce due anni prima, nel 2006: affaticati da lunghe sessioni di brainstorming, i due soci prendono l’abitudine di ascoltare musica al computer per rilassarsi. Così facendo, si rendono conto che scaricare brani e album illegalmente richiede tempo, la qualità audio lascia spesso a desiderare e c’è perfino il rischio di prendersi qualche virus. Quindi arriva l’idea: una piattaforma legale in cui sia possibile ascoltare musica a ruota libera, potendo scegliere fra un ampio catalogo di canzoni, tutte disponibili in remoto.
Il progetto dei due imprenditori anticipa di un paio d’anni il boom del Cloud Computing, sfruttandone appieno i vantaggi.

La musica su misura per te

I vantaggi dati dal Cloud costituiscono una larga fetta del successo di Spotify: a fare la parte del leone è sicuramente il grande assortimento di canzoni (più di 50 milioni) subito disponibili.
Il valore aggiunto però è la personalizzazione del servizio: in base ai tuoi ascolti, Spotify ti consiglia nuova musica e crea playlist su misura per te!
A dicembre 2019, ha spopolato la funzionalità “Wrapped”, con cui Spotify presenta una panoramica degli ascolti degli utenti nel corso dell’intero anno e, in questo caso, anche del decennio appena trascorso.
Il resoconto viene mostrato tramite animazioni e testi coinvolgenti che puntano sull’emotività dell’utente.
Spotify instaura una connessione profonda con i propri consumatori, ricordando la data in cui si sono iscritti (es. “Sei con noi dal 2014, questo decennio non sarebbe stato lo stesso senza di te!”) e ringraziandoli per il tempo “che abbiamo passato insieme”.
Naturalmente, Spotify offre la possibilità di condividere sui social le schede della presentazione: il successo è stato tale che la schermata che presentava il grafico con i generi musicali più ascoltati è diventata un meme, qui proposto da Sapore Di Male.

Altre ragioni dietro al successo di Spotify, in grado di distinguerla dai suoi principali competitor (Apple Music, YouTube Music), includono il fatto che sia arrivata per prima (ha debuttato in Europa nel 2008 e negli USA nel 2011) e che sia multi-piattaforma, compatibile con qualsiasi device. Gli utenti ne apprezzano anche l’interfaccia e la componente social.
Fondamentale risulta essere la versione gratuita per PC e tablet, che – a differenza dell’analoga versione per smartphone – offre totale libertà di scelta sui brani da ascoltare; unica pecca: la pubblicità. Questo servizio limitato spinge gli utenti a iscriversi alla versione Premium per poter godere delle stesse funzioni su smartphone, e senza pubblicità.
Si stima che circa il 75% degli utenti si iscriva a Spotify Premium a seguito della prova gratuita di tre mesi.

L’effetto sull’industria musicale

Il boom delle piattaforme musicali di streaming ha contribuito al calo dei download illegali: secondo una ricerca di Similarweb per Ifpi e Fimi, la pirateria musicale in Italia si è ridotta di oltre il 50% fra il 2017 e il 2019.
A contribuire a questo trend ci ha pensato anche una maggiore attenzione da parte delle autorità e delle stesse case discografiche, che setacciano il web oscurando qualunque possibile link sospetto.
È quindi più difficile accedere a contenuti pirata rispetto a una decina di anni fa e, soprattutto, bisogna saperlo fare, conoscere i siti o i programmi giusti e sapersi proteggere da eventuali minacce informatiche. Insomma, la pirateria non è cosa da tutti.
Aggiungiamoci il fatto che la maggior parte degli utenti, oggi, accede a musica e contenuti video tramite il proprio smartphone, e sul cellulare è più difficile “scaricare” illegalmente. L’utente medio, quindi, preferisce di gran lunga pagare per risparmiare tempo e fatica.
Gli effetti sull’industria musicale sono contrastanti. Da un lato si criticano gli scarsi compensi agli artisti, dall’altro ci si rallegra del fatto che i guadagni e le posizioni in classifica dei brani siano frutto anche di ascolti occasionali.
Al centro c’è quindi la scelta degli utenti e la più completa meritocrazia, che va oltre alla possibilità economica degli stessi (che accedono alla piattaforma gratuitamente o con solo 9,99 euro al mese) e che prende in considerazione l’effettivo numero di riproduzioni del brano. Se un tempo, infatti, nell’acquisto di un singolo o di un album era prevista un’unica transazione economica fra consumatore e artista, nell’era del Cloud i consumatori intrattengono con l’artista una transazione economica inferiore, ma più continuativa, che si riflette anche in classifica: è il caso di “All I Want For Christmas Is You” di Mariah Carey che, dopo ben 25 anni, ha raggiunto la prima posizione nella chart dei singoli americana proprio grazie alle numerose riproduzioni durante il periodo natalizio.
Insomma, è il caso di dirlo: la musica è davvero cambiata.

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Treccani e i meme: divulgare cultura al tempo dei social

12 Febbraio 2020

Cosa significa “meme”?

Partiamo proprio dalla definizione della Treccani, che per “meme” intende un “singolo elemento di una cultura o di un sistema di comportamento, replicabile e trasmissibile”, non a caso il termine deriva dal greco mímēma, imitazione. Sul web, i meme sono contenuti che diventano virali proprio in virtù della loro replicabilità, che si apre a infinite rielaborazioni.

I meme di Treccani, fra “alto” e “basso”

Spesso alla base di un meme c’è un video, una gif o un’immagine che desta l’attenzione dei “memers”, pronti ad arricchirla di significato calandola in diversi contesti.
Ricollegandosi alla perpetua commistione fra “alto” e “basso” che caratterizza la sua strategia di comunicazione, Treccani riutilizza in questo contesto immagini di opere d’arte di grandi artisti italiani.
Spesso si tratta di artisti su cui la Treccani ha recentemente pubblicato un volume, in modo che i meme fungano da richiamo al libro stesso: insomma, nulla è lasciato al caso!

Sintesi visiva e potenza divulgativa

Ciò che rende i meme vincenti è la loro capacità di sintesi e l’immediatezza della loro potenza visiva, attraverso cui riescono a divertire, ma anche a trattare temi importanti e di profonda attualità.
Particolarmente utilizzato è l’escamotage dell’immedesimazione o della raffigurazione personificata di pensieri e concetti astratti: attraverso le espressioni, i gesti e l’atteggiamento dei personaggi raffigurati, si dipinge un contesto o una situazione ricollegandosi alla vita quotidiana o a temi sociali di più ampia portata. Quindi, se il meme a sinistra ironizza su qualcosa che può capitare a tutti (rendersi conto di avere torto a metà di una discussione), quello a destra evidenzia le falle di un sistema socio-economico che grava sulle spalle delle risorse del pianeta e dei diritti umani.

Utilizzando lo stesso metodo, Treccani si esprime in modo efficace anche su questioni grammaticali (attraverso la personificazione di “qual”, del verbo “è” e dell’apostrofo) o addirittura risponde in prima persona alle critiche (in questo caso rivolte al presunto inserimento del neologismo “Ferragnez” nella loro enciclopedia).

Ogni meme pubblicato da Treccani viene corredato da un testo in sovrimpressione, funzionale alla sua comprensione, e dalla didascalia del post. Quest’ultima, insolitamente lunga per gli standard social, viaggia in secondo piano rispetto al meme, in grado di veicolare in modo più efficace un messaggio proprio grazie alla sua sintesi visiva.
Il concetto viene espresso alla perfezione da questo meme di Treccani pubblicato il 20 ottobre 2019:

La didascalia del post non è quindi sempre necessaria alla comprensione del meme, tuttavia ne costituisce spesso il giusto completamento, a volte la chiave di lettura.
E, soprattutto, permette di inserire link a voci dell’enciclopedia online e riferimenti ai volumi cartacei pubblicati da Treccani.
In un certo senso, il meme costituisce un’esca per spingere l’utente ad approfondire il contesto culturale che sta dietro all’immagine grazie al supporto dell’enciclopedia. Allo stesso modo, l’elevato grado di “condivisibilità” dei meme si ricollega strettamente all’intento divulgativo dell’enciclopedia, costituendo il mezzo più adatto per diffondere la cultura nell’era dei social. Questo ragionamento ci porterebbe a pensare che Treccani utilizzi il linguaggio dei meme per rendere la cultura più “accessibile” a tutti, ma non è sempre così. Con i meme più recenti, che citano approfonditamente altri meme, format di meme e ulteriori aspetti interni alla cosiddetta “internet culture”, Treccani si rivolge a una comunità ben precisa, costituita da utenti che conoscono alla perfezione i meme e il loro linguaggio. Il rischio è quello di invertire il senso della missione enciclopedica, che mira a rendere la cultura accessibile a tutti. Treccani riesce tuttavia ad aggirare il problema diversificando i contenuti proposti e non mancando mai di fornire una chiave di lettura agli utenti più sprovveduti.

I meme di Treccani funzionano?

Proviamo a dare un responso basandoci sul livello di interazione dei post: i tredici meme pubblicati negli ultimi tre mesi hanno prodotto su Facebook una media di 1.458 reazioni, 200 commenti e 193 condivisioni e su Instagram una media più alta di ‘like’ (2.045) e più bassa di commenti, in linea con le dinamiche del canale in questione. Questi numeri sanciscono un distacco netto rispetto a tutti gli altri contenuti pubblicati dai canali social di Treccani (fatta eccezione per la rubrica “Le parole delle canzoni”, che si attesta su risultati simili) e questo dovrebbe bastare per dichiarare che sì, i meme funzionano, se si sanno fare. Producono ‘like’ e, cosa più importante, condivisioni e commenti: non si riescono a contare le dichiarazioni d’amore ai social media manager di Treccani (accompagnate addirittura da richieste di matrimonio), mentre i più sobri si limitano a dichiararli “geniali”, affermando che “mema meglio la Treccani delle pagine di shitposting”. In fondo ha senso che la Treccani, l’istituzione culturale italiana per eccellenza, sia in grado di padroneggiare qualunque tipo di linguaggio, incluso quello dei meme.

In conclusione

La strategia social di Treccani ha rinverdito la reputazione dell’enciclopedia grazie ad una comunicazione in grado di padroneggiare il mezzo social.
Grazie anche a un sapiente utilizzo dei meme, Treccani è riuscita a raggiungere un nuovo pubblico (più giovane e attento alle dinamiche del web) rimanendo sempre e comunque fedele al proprio intento: divulgare cultura.

Filed Under: Creatività, Social Media Tagged With: facebook, meme

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