Dura la vita da influencer, soprattutto se pianifichi di diventare uno di quelli veri, con un profilo che supera almeno i 15.000 follower.
Per questo, nel vasto mondo di Instagram, molti utenti hanno iniziato ad architettare qualche maldestro stratagemma. Perché passare da utente di livello medio a un “influencer” professionale (prestate molta attenzione a questa parola), e quindi in grado di avere grande ascendente sugli altri profili, per guadagnare revenue in prodotti o denaro, è davvero un compito ingrato. Così, tanti hanno adottato una nuova strategia: fake it, until you make it, come dicono gli americani. E da qui parte il fenomeno dei fake influencers: un fenomeno ormai diffuso anche in Italia e portato agli onori della cronaca da “The Atlantic”, webzine americana, che ha stilato una lista di profili e azioni fake.
“In the influencer world, it’s street cred,” said Brian Phanthao, a 19-year-old lifestyle influencer in San Diego who sees fake ads all over Instagram. “The more sponsors you have, the more credibility you have.” Ovvero: “‘Nel mondo degli influencer, è tutta questione di street credibility’, ha dichiarato Brian Phanthao, un influencer di 19 anni che vive a San Diego e che vede false ads in ogni dove su Instagram. ‘Più sponsor hai, più credibilità hai’“.
Ed è proprio così: moltissimi influencer – o presunti tali – taggano e usano caption per i marchi che utilizzano nelle foto, indipendentemente dal fatto che gli oggetti del desiderio (abiti, saponi, profumi, vacanze, persino auto) siano stati acquistati, dati loro gratuitamente o facciano parte di una campagna pubblicitaria. E questo perché per i “profani” della timeline è decisamente difficile, se non impossibile, dire se un influencer è realmente tale, al netto dei like, dei commenti e dei tag.
Le multinazionali che dicono “no”
La scorsa estate, precisamente il 18 giugno, durante il Festival della Pubblicità di Cannes, la multinazionale Unilever, colosso da oltre 60 miliardi di dollari di fatturato e proprietaria di brand come AXE, Dove, Cerruti, ha dichiarato che non verranno mai più accettate partnership con influencer i cui numeri siano falsificati con bot e app di terze parti. Guerra, questa, che coinvolge sia profili sconosciuti che insospettabili big, i quali, come rivela uno studio di Rolling Stones Italia, hanno “pompato” e continuano a pompare i propri profili i cui KPI iniziano a scricchiolare.
E Instagram non sta – di certo – a rimirar le stelle
“Starting today, we will begin removing inauthentic likes, follows and comments from accounts that use third-party apps to boost their popularity.” Così ha tuonato il social network in un blog post dello scorso 19 ottobre. Diktat, questo, che si è rivelato più che attendibile: infatti, poche ore dopo, Instagram ha cominciato un’operazione di rimozione di mi piace, follower e commenti non reali e organici da una marea di account che utilizzano app esterne al social per aumentare la propria popolarità: insomma, a qualcuno piace reale. Attraverso questi nuovi strumenti di moderazione, la regia di Cupertino possiede ora modalità innovative per smascherare gli impostori che non hanno intenzione alcuna di attendere la crescita organica del proprio profilo.
Com’è avvenuto tutto questo? Attraverso una comunicazione: tanti nanoinfluencer – persone non famose con profili inferiori ai 1000 follower che tentano di ottenere prodotti in cambio di recensioni o fingono di aver ottenuto partnership di brand – hanno ricevuto un messaggio in-app che avverte la cancellazione di tutte le revenue social non veritiere. Insomma, “in prigione, senza passare dal via”. Giovanissimi e meno giovani: la corsa all’oro della conquista dei brand tramite social fa gola a tanti. Ma le misure di protezione attuate da brand e Instagram sono ormai inespugnabili: perché aziende e social vogliono vedere reali capacità professionali, una passione per il brand palpitante, e un duro lavoro dietro ogni pic. Un compito difficile, sì, ma potrebbe valerne la pena.