Succede spesso che la comunicazione si intrecci con la moda: un campo affascinante, ché anche nel ramo dell’advertising lascia sempre il segno. Per lo più.
Già: perché che succede quando le grandi maison e i maestri couturier si fanno calcare troppo la mano dalla necessità di idealizzare il loro prodotto, commettendo qualche gaffe decisamente non perdonabile a livello sociale?
Questo è quanto è successo alla Maison Dior la quale, a metà di questo mese ormai giunto al termine, ha sottovalutato le conseguenze di una campagna advertising con protagonista Johnny Depp.
Dior: autoreferenzialità non responsabile
“We are the land. Sauvage”: in un percorso a ritroso su questo spot, girato nel deserto del Nevada, il claim finale ha fatto storcere il naso a molti, negli USA e non solo.
Perché la “terra selvaggia” in questione è la terra dei Nativi americani che, come la storia – ma anche i più recenti oneri della cronaca – ci insegnano, sono stati sterminati e rinchiusi nelle riserve.
Un accostamento quindi di termini decisamente in antitesi. Il tutto, poi, rafforzato da immagini affascinanti ma del tutto posticce: la bellissima Sioux, che in realtà è un’attrice canadese, e il ballerino intento a danzare in variopinti costumi Cherokee, ma sulle note di una chitarra elettrica suonata da Johnny Depp.
Che cosa si evince, da questo spot diffuso su TV e sulla carta stampata? Una mancanza di analisi e di responsabilità da parte della grande Maison Couturière che, pur di dare un contesto d’ispirazione forte – rimarcando la sensazione che il nome e l’aroma di questa eau de parfum devono per forza dare – sbaglia completamente il significante andando ben oltre la stereotipizzazione, ma rimanendo del tutto dentro all’auto-referenzialità.
Non solo Dior: il caso Gucci
Anche per la maison fiorentina Gucci sembrano lontani i tempi sognanti di “Flora”, l’eau de parfum che ammiccava ai richiami di “Pic Nic a Hanging Rock” sulle note dilatate della cover di “Heart of glass” dei Blondie: all’inizio dello scorso 2019, il brand è stato pubblicamente accusato da Spike Lee e altri esponenti del mondo artistico americano di non avere volontariamente un numero adeguato di stilisti neri. Non solo: negli stessi giorni, Gucci ha dovuto ritirare dal commercio USA un maglione che ricordava, a detta di molti, il “blackface”, il costume che, tra la fine dell’800 e gli anni ‘30, veniva usato dai bianchi per ridicolizzare gli schiavi. Solo una coincidenza? Molto probabile.
Ma la questione è un’altra: la maison, attaccata soprattutto su Twitter, ha risposto alle accuse con una dichiarazione di intenti – assumere sicuramente stilisti neri – e un’azione concreta – far sparire dal commercio il maglione incriminato e porgere le più sentite scuse. Dior, invece, non ha fatto nulla per porre rimedio a questo scandalo al sole: tempestati di mention e commenti indignati da parte di mezzo mondo, la maison non ha ritirato lo spot, non ha fatto uscire nessun position paper, non ha messo in atto nessuna manovra di crisis management. Semplicemente, forse, lascerà che la folla si calmi e che lo spot venga dimenticato.
In Siks ADV, però, ci viene naturale riflettere su questi meccanismi comunicativi, e notare quale sia la grande mancanza di fondo: una totale assenza di crisis management, che oggi non può passare per un semplice comunicato di scuse, ma potrebbe arricchirsi di un qualcosa di unconventional, magari riprendendo proprio la campagna incriminata e, tingendola di ironia, sorridere di sé stessi e di tutti quegli errori che possono costellare il cammino stellato della moda.
Perché ciò che fa un brand è la sua capacità di comunicare, anche “fuori dalla scatola” autocelebrativa o convenzionale: un comunicazione che non si esaurisce solamente nel senso di evocazione che il prodotto, con il suo naming e la sua costruzione di immagini, ci dà. E, forse, per questo, preferiamo chi se la gioca su altri piani, proprio come Chanel fece in questo intramontabile classico dell’ADV firmato da Jean-Paul Goude.