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Siks adv

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Agenzia di comunicazione a Genova

Advertising

Brand VS Brand: esempi di pubblicità comparativa

4 Maggio 2022

Il concetto di pubblicità comparativa ci porta subito alla mente diversi livelli di adv: da un lato le pubblicità dei prodotti d’igiene con relativo paragone che svela quale dei due funziona meglio, dall’altro le lotte a colpi di creatività fra colossi come Pepsi e Coca Cola. Se in Italia è illegale fare riferimenti diretti ad altri brand, negli Stati Uniti e in altri Paesi c’è molta più libertà, anche se denunce e sanzioni sono sempre dietro l’angolo.
Scopriamo insieme quali sono le strategie di comunicazione più utilizzate nella pubblicità comparativa prendendo in rassegna alcuni degli esempi più significativi.

Ribaltare le aspettative

Davanti alla prospettiva di incappare in denunce, la pubblicità comparativa finisce spesso per “giocare con il fuoco”. Il gioco è condotto anche in relazione a chi guarda, dato che spesso gli ad di questo tipo giocano a tradire le aspettative dello spettatore, spingendolo a credere che si tratti di una pubblicità del loro competitor.

È il caso di un celebre spot del 2001, ideato da Headshaus: un bambino prende due lattine di Coca Cola da un distributore automatico, ma poi le usa come “sgabello” per raggiungere il pulsante che gli permette di acquistare una Pepsi.

Possiamo poi citare uno spot di Adidas (ideato dall’agenzia Spec nel 2005), meno aggressivo ma comunque efficace: la voce fuori campo spiega che l’abile corridore inquadrato dalla macchina da presa indossa scarpe Nike, ma poi aggiunge che il cameraman, che deve seguire l’atleta portando con sé la pesante telecamera, indossa scarpe Adidas.

Ammettere uno svantaggio

Nel 1962, nell’ambito del noleggio auto non c’era gara: Hertz vinceva a mani basse. Da qui deriva la geniale intuizione del competitor Avis: ammettere candidamente di essere il “numero 2”. La strategia, ideata dalla celebre agenzia Doyle Dane Bernbach, diede vita a una campagna che costituisce ancora oggi una boccata d’aria fresca nel mondo della pubblicità comparativa, in cui troppo spesso i brand tendono a ergersi a vincitori a prescindere. Ammettendo l’esistenza di un competitor più forte, Avis ha evidenziato i propri limiti trasformandoli in punti di forza. Arrivare al secondo posto dopo Hertz significa non potersi permettere di sgarrare: per questo motivo, come suggeriscono gli ad, Avis deve impegnarsi il doppio — non può permettersi di trattare i clienti con scortesia o di farli aspettare; non può permettersi di noleggiare automobili sporche o con poca benzina. La campagna mette in luce un’attenzione al proprio pubblico derivante proprio dal fatto di non essere il leader di mercato: in quest’ottica, per il cliente è più conveniente scegliere il ‘secondo arrivato’.

Questo spot del 2016, ideato dall’agenzia Tbwa, è costruito in modo simile: Burger King riconosce il fatto che i punti vendita del suo principale competitor (McDonald’s) siano distribuiti in modo più capillare, ma suggerisce che le sue specialità siano talmente buone che i suoi clienti siano disposti a fare molti più chilometri per poterle gustare, limitandosi ad acquistare solo un caffè dal ‘rivale’ allo scopo di ‘resistere’ svegli fino al primo Burger King disponibile, salvo poi riconoscere (sul finale) che “non era poi così lontano”.

Dissacrare con leggerezza

Parliamo infine di una campagna molto fortunata, realizzata per Apple da TBWA\Media Arts Lab dal 2006 al 2009. Gli spot in questione mettono in scena la rivalità con il colosso di Bill Gates, già sottintesa fin dal lancio del Mac: se il celebre spot del 1984 faceva intendere che il nuovo prodotto della Apple avrebbe posto fine al monopolio di Windows, nel 2006 i toni sono meno epici, ma il messaggio è altrettanto efficace.

Nella serie di spot in questione, due attori interpretano rispettivamente il Mac e il PC: il primo è un giovane in abiti casual, il secondo è un uomo di mezz’età in giacca e cravatta. Il dialogo fra i due personaggi mette in luce le differenze fra PC e Mac, suggerendo come ci sia altrettanta differenza fra i tipici fruitori dell’uno e dell’altro device: il cliente di Microsoft è goffo e un po’ impettito, mentre quello di Apple è disinvolto e sicuro di sé. Nel primo spot della serie, il personaggio che interpreta il Mac evidenzia le capacità del PC in relazione a mansioni tecniche (“Dovreste vedere cosa riesce a fare con un foglio di calcolo”), ma poi afferma di essere meglio del competitor per quanto riguarda fotografie, musica e video. Il personaggio che incarna il PC rimane imbambolato di fronte alla dichiarazione del competitor (“Ehi, aspetta… in che senso meglio?”), dimostrando la propria inettitudine nel dialogo che segue, mentre il Mac appare brillante e consapevole, in pieno controllo della situazione. Con questa serie di sketch, Apple è riuscita a essere dissacrante al punto giusto, valorizzando le proprie caratteristiche e ironizzando sulle lacune del proprio competitor senza mai risultare offensiva.

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1984: Ridley Scott e Apple, lo spot che ha cambiato la storia

2 Febbraio 2022

Dopo l’articolo che abbiamo dedicato a Ingmar Begrman, continuiamo a parlare di come cinema e pubblicità possano incontrarsi grazie al contributo dei più celebri registi.
In questo post vogliamo fare luce sull’esperienza pubblicitaria di Ridley Scott per poi analizzare il celeberrimo spot da lui diretto per Apple traendo ispirazione da 1984 di George Orwell.

Ridley Scott, l’esperienza in pubblicità

Quando Ridley Scott raggiunse il grande successo con Alien (1979), alle sue spalle aveva 20 anni di esperienza in pubblicità e la regia di circa 2.000 spot. Erano tempi competitivi, in cui si girava molto: circa 100 spot all’anno, due alla settimana. “Arrivavo dall’era dell’advertising stile Mad Men, stavamo forgiando il concetto moderno di pubblicità”, dichiara Scott.
Il regista l’aveva presa come una sfida: “Mi ha sempre meravigliato quanto riuscissi a infilare in uno spot di 30 secondi”.
Grazie all’adv, Ridley Scott dichiara di aver imparato a “prendere in considerazione la domanda più basica: sto comunicando o sto mancando il bersaglio? Se non stai comunicando, non puoi fare un film di successo”.

Scott afferma che la capacità di “vendere” una storia al pubblico deriva direttamente dalla sua esperienza in ambito pubblicitario, che considera al pari di una “scuola di cinema” che gli ha insegnato a ottimizzare i budget e a rispettare le scadenze. In poche parole, girare spot gli ha permesso di passare dalla teoria alla pratica, acquisendo un metodo di lavoro che avrebbe conservato per il resto della sua carriera.

Come accaduto ad altri registi britannici che arrivavano dall’advertising, Scott è stato spesso criticato per il fatto di dare troppa importanza all’estetica: “Dicevano che il mio girato era troppo basato sull’immagine, un’eredità della mia esperienza nel marketing. Cosa c’è di male? Non sto facendo un’opera radiofonica, ma qualcosa da vedere”.

Ad esempio, le atmosfere oniriche dello spot “Share the fantasy”, girato da Scott per Chanel No 5 nel 1979, anticipano l’estetica di alcuni dei suoi successivi film.

Nel 1985, qualche anno dopo il grande successo di Blade Runner (1982), Scott gira per Pepsi uno spot che immerge lo spettatore in un mondo notturno, fatto di colori al neon.

La capacità del regista di creare atmosfere suggestive, con una grande attenzione all’estetica e uno spiccato gusto per il surreale, costituirà un contributo fondamentale nello spot che stiamo per analizzare.

Lo spot di Apple

22 gennaio 1984

“Alcune persone dicono di dare ai clienti quello che vogliono, ma questo non è il mio approccio. Il nostro lavoro è capire cosa vogliono prima che lo vogliano”, dichiarava Steve Jobs a Playboy nel 1985.
Questo mantra è perfettamente incarnato dal celebre spot 1984, realizzato per Apple da Ridley Scott in collaborazione con l’agenzia Chiat/Day di New York.
Lo spot debutta il 22 gennaio 1984 durante una pausa pubblicitaria del Superbowl, segnando un momento storico non solo per la Apple, ma per la stessa manifestazione sportiva, che proprio da quel momento comincerà ad essere considerata dagli inserzionisti come l’evento cardine dell’intero palinsesto televisivo statunitense.
La forza evocativa dello spot in questione deriva anche dal fatto che sia stato trasmesso solo una volta a livello nazionale, proprio in quell’occasione.

1984

Lo spot pescava dall’immaginario fantascientifico dei primi anni ‘80, ben rappresentato da Blade Runner, e dall’atmosfera distopica di 1984.

L’ambientazione è scura, forse sotterranea: vediamo una fila di persone che marciano in modo robotico, ipnotizzate dalla propaganda del Grande Fratello, mentre una giovane donna inseguita da guardie con l’elmetto corre attraverso un tunnel brandendo un martello. L’eroina, interpretata dall’atleta inglese Anya Major, indossa una maglietta con il logo di Apple e una sagoma che rappresenta il Macintosh. Prima che possano fermarla, lancia il martello sullo schermo gigante interrompendo la propaganda del dittatore. L’esplosione risveglia le masse dalla loro ipnosi mentre il narratore recita: “Il 24 gennaio Apple Computer introdurrà Macintosh. E vedrai perché il 1984 non sarà come 1984”.

La sfida di Apple

Con questo spot Apple dà inizio a una rivoluzione. Innanzitutto per l’audace sfida lanciata a IBM, rappresentata come un’autorità a capo di un monopolio che fa il lavaggio del cervello alle masse. In questo contesto, Apple si presenta come l’eroina, l’outsider che alla fine trionfa, stupendo tutti. Forse non è un caso che a rappresentare il marchio sia una donna, alla luce delle lotte femministe del decennio precedente, che si erano riflesse anche nel cinema di Scott (Alien, 1979).

A rendere ancora più potente il messaggio è il fatto che non ci sia un prodotto fisico su cui concentrare la propria attenzione. Come fa notare Ridley Scott, lo spot non dice cosa sia o cosa faccia il Mac, né tantomeno lo mostra. Sotto questo punto di vista, 1984 ha aperto la strada all’adv contemporaneo, in cui i valori del brand arrivano prima del prodotto o del servizio da vendere. Grazie a questo spot, la Apple si è affermata come un’alternativa creativa e dirompente rispetto al monopolio di IBM. Secondo Walter Isaacson, “lo spot ha iniettato il DNA di Steve Jobs nello spirito di Apple”, influenzando per sempre l’immagine del brand, tutt’oggi indissolubilmente legato al concetto di libertà, ribellione, anticonformismo.

Ironicamente, nel 2020, il franchise videoludico di Fortnite riprenderà il concept del celebre spot del 1984 per scagliarsi contro il ban ricevuto dall’Apple store, insinuando che Apple sia passata dalla parte dei cattivi: possiamo parlare di un nuovo “1984”?

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Figure retoriche e linguaggio visivo nell’advertising

6 Ottobre 2021

Quando si fa pubblicità, la prima e più importante regola da imparare è la sintesi.
E quale linguaggio migliore di quello visivo per restituire un concetto astratto e complesso in modo efficace e immediato?
Così l’adv prende in prestito le figure retoriche dalla letteratura per trasferirle sui propri visual: ecco le più utilizzate dalle agenzie creative di tutto il mondo!

Metafora

In questo primo ad, Tampax associa il suo assorbente a un’enorme barriera in grado di arginare una corrente d’acqua, dando vita a una metafora decisamente eloquente!

Agenzia: Leo Burnett

Similitudine

In questo secondo ad, la resistenza del motore di Mitusbishi viene enfatizzata dall’associazione con un rinoceronte: una similitudine azzeccata!

Agenzia: Africa

Iperbole

L’iperbole estremizza un aspetto del prodotto, sfociando spesso nell’assurdo. In quest’ad del dentifricio Formula, i denti del consumatore risultano così forti e resistenti da riuscire a mordere e strappare parte del manifesto stesso.

Agenzia: Ogilvy & Mather

Personificazione

La personificazione attribuisce caratteristiche umane ad animali o oggetti.
In quest’ad, la resistenza della colla Pattex viene associata alla prestanza fisica di un bodybuilder.

Agenzia: DDB Hamburg

Antitesi

L’antitesi consiste nell’accostamento fra due concetti espressi visivamente: il contrasto valorizza una o entrambe le parti.
Decisamente immediato l’ad di Sky per promuovere la visione delle partite di calcio in HD sulla loro piattaforma.

Agenzia: 1861 United

Ellissi

L’ellissi pone l’attenzione sulla mancanza di un elemento fino a quel momento dato per scontato, valorizzandone la presenza o l’assenza nel contesto preso in considerazione.
Sedex adotta questa figura retorica per evidenziare la velocità di consegna del suo servizio di corrieri:

Agenzia: Artplan

Nel secondo ad, una clinica di correzione visiva pone l’attenzione sulla mancanza di binocoli: i loro clienti non ne hanno bisogno!

Agenzia: DM9 JaymeSyfu

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Il caso Supreme, quando lo streetwear sfocia nel lusso

22 Settembre 2021

L’iconico logo bianco su sfondo rosso evoca subito alla mente l’eccezionale storia di Supreme, che da piccolo marchio di streetwear si è trasformato in uno dei brand più ricercati al mondo.

Supreme nasce come semplice negozio d’abbigliamento per skater in un periodo, gli anni ‘90, in cui l’immaginario teen era pervaso da capi oversize e accessori in stile hip hop. Il primo, storico store aprì nel 1994 a Soho (New York), facendo parlare di sé grazie a un ampio spazio centrale che i ragazzi potevano utilizzare come pista per gli skateboard.
Un elemento fondamentale era il fatto che solamente gli skaters potessero entrare, mentre il resto delle persone doveva “guadagnarsi il diritto” di poter fare shopping da Supreme (tenete a mente questo concetto, vi tornerà utile più tardi).
Il negozio diventò quindi un punto di ritrovo “cool” per gli adolescenti della città: presto la voce si diffuse in tutti gli Stati Uniti, tanto che già un anno più tardi Vogue definì Supreme lo “Chanel dello streetwear”.
Dal 2000 in poi, il brand è andato incontro a una costante crescita, uscendo dalla nicchia degli skaters per affermarsi come promotore di uno stile di vita underground per teenager e giovani adulti.
Oggi Supreme è un brand affermato a livello globale, dal valore di oltre 2 miliardi di dollari.
Qual è la strategia dietro al suo successo? Scopriamolo insieme!

Brand awareness

Sin dai suoi primi anni di attività, Supreme ha apposto il suo logo non solo su cappellini, magliette, felpe e adesivi, ma sui prodotti più svariati: dalla canoa al flipper, fino alla trombetta da stadio.

Questa grande varietà ha permesso a Supreme di far conoscere il proprio logo, affermandosi come brand peculiare proprio grazie all’approccio non convenzionale nella scelta dei prodotti brandizzati, che diventano richiestissimi. La brand awareness generata da quest’operazione commerciale si è tradotta nella possibilità di raggiungere una fascia di prezzo alta, giustificata dall’aura di unicità che caratterizza gli item e quindi lo stesso marchio.

Effetto scarsità

Una delle strategie più comuni nel marketing dei marchi di lusso sfrutta l’effetto scarsità, individuato dallo psicologo Robert Cialdini negli anni ‘80: secondo questo bias cognitivo, siamo propensi a credere che un prodotto abbia un valore superiore solo perché risulta disponibile in quantità limitate. Aderendo a questo principio, Supreme rilascia soltanto una decina di capi o accessori esclusivi ogni settimana. La tiratura limitata dei pezzi causa un esaurimento quasi istantaneo, spingendo le persone a fare di tutto pur di potersene accaparrare una copia. Naturalmente, questo fattore influenza anche la rivendita online dei capi, che — nel caso di Supreme — possono raggiungere cifre superiori del 1200% rispetto al prezzo di listino.
Se riuscire ad acquistare online risulta difficile, avere la chance di farlo in negozio lo è ancora di più, dato che per partecipare alla new release devi registrarti attraverso un form che, oltre a essere intasato da milioni di utenti che mandano in down il sistema, resta disponibile solo per poco tempo. Perfino la newsletter che informa in anticipo delle nuove uscite è riservata a pochissimi indirizzi, scelti secondo modalità misteriose — una vera e propria eccezione, in un mondo in cui i brand sono alla costante ricerca di contatti per le loro mailing list.

Co-branding

Negli anni ‘90, le collaborazioni di Supreme con gli skater più famosi del momento riuscirono a posizionare il marchio come promotore della moda e dell’estetica underground.
Nel tempo, il brand è uscito dalla propria nicchia per abbracciare altri marchi d’abbigliamento: partendo da quelli sportivi (Nike, Adidas) e streetwear (Levi’s, Vans), Supreme arrivò a “squarciare” il mondo dell’Alta moda con la nota collaborazione con Louis Vuitton.

L’efficacia del co-branding di Supreme sfocia infine al di fuori del settore abbigliamento grazie a collaborazioni con Oreo, Colgate e Moka, fra gli altri.
Le collaborazioni permettono al brand di ottenere una maggiore awareness, giocando sull’effetto scarsità con prodotti in edizione limitata ancora più esclusivi in quanto co-brandizzati.

In questo modo, Supreme riesce a espandere il proprio pubblico e i propri valori senza mai perdere la sua identità, caratterizzata da un’estetica che, pur sfociando nel lusso e nel mainstream, rimane sempre profondamente underground.

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Co-creazione di valore fra brand e cliente: il caso IKEA

21 Settembre 2021

Quale brand vi viene in mente se vi parliamo di oggetti coloratissimi dai nomi impronunciabili, matitine omaggio e polpette svedesi?
Avete indovinato: IKEA!

Grazie alle sue particolarità, il colosso nord-europeo è riuscito a distinguersi nella massa grigia dei suoi competitor, guadagnandosi un posto saldo nel nostro immaginario da oltre 20 anni.
La principale caratteristica di IKEA, presente nelle barzellette degli anni ‘00 così come nei meme di oggi, è il fatto che i suoi mobili vadano montati. Oggi vi spieghiamo come e perché questa scelta ha decretato il successo dell’azienda, facendo luce sui vantaggi della co-creazione di valore fra brand e cliente.

Fatica e amore, lo studio

Partiamo da ‘The “IKEA Effect”: When Labor Leads to Love’, studio del 2011-2012 dell’Università di Harvard a cura di Michael I. Norton, Daniel Mochon e Dan Ariely. La ricerca prende spunto dal fallimento dei primi preparati istantanei di torte degli anni ’50: si ipotizzò che vendettero poco perché erano troppo facili da realizzare, rendendo superfluo il lavoro delle casalinghe. Per questo motivo, l’azienda produttrice decise di cambiare la ricetta in modo che richiedesse l’aggiunta di uova. La richiesta di una partecipazione attiva, seppur minima, si rivelò fondamentale nel successo del prodotto, tanto che — ancora oggi — tutti i preparati per torte richiedono l’aggiunta di almeno un ingrediente.
Alla base di questo fenomeno c’è quella che diversi psicologi definiscono “giustificazione degli sforzi”, ovvero l’idea secondo cui quanto più sforzo mettiamo nel perseguire un obiettivo, tanto più saremo orgogliosi e appagati nel vederlo prendere forma. IKEA sfrutta questo bias cognitivo promuovendo un rapporto stretto fra consumatore, oggetto e brand.

Co-creazione di valore: vantaggi

Risparmio

La co-creazione di valore permette all’azienda di delegare gran parte del lavoro al cliente finale, risparmiando sui costi di fabbricazione.

Conoscenza

Offrire la possibilità di personalizzare il bene permette al brand di acquisire informazioni strategiche in merito alla preferenze e alle abitudini dei propri clienti.

Fidelizzazione

La fase di montaggio diventa parte integrante del valore del bene acquistato e la sua buona riuscita culmina in una profonda soddisfazione personale da parte dell’acquirente. Questo aumenta la fidelizzazione del cliente, che — essendo coinvolto in prima persona — può sentirsi in parte responsabile del successo del brand, fino a diventarne ambasciatore.

Disponibilità a pagare

Il processo di co-creazione intensifica il legame con l’oggetto in questione, per il quale il cliente sarà disposto a pagare un prezzo più alto rispetto a un esemplare equivalente, ma preconfezionato.

Co-creazione di valore: consigli per i brand

Il lavoro richiesto al cliente deve essere semplice, ma non troppo. Il compito deve richiedere un certo impegno per far sì che l’acquirente si senta coinvolto e quindi utile alla causa, ma tale mansione deve essere “fattibile” e spiegata in modo chiaro. Fornire una certa autonomia nelle scelte di personalizzazione del cliente permette infine di scongiurare gli effetti del self-serving bias, ossia quel meccanismo mentale per cui si tende ad associare le vittorie a noi stessi e i fallimenti agli altri — al brand, in questo caso. Al contrario, un maggiore coinvolgimento nel processo di creazione porta il cliente ad assumersi la responsabilità in entrambi i casi.

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Gli errori dei brand, ecco come imparare dai fallimenti

22 Agosto 2021

Dagli errori si impara sempre qualcosa.
La situazione ideale è quando a sbagliare sono gli altri: avulsi dal bruciore del fallimento, possiamo analizzare la situazione dall’esterno, con razionalità, e capire quali insegnamenti trarne.
Con questo spirito, diamo un’occhiata ad alcuni dei più grandi fallimenti dei brand, raccolti in un curioso museo a Helsingborg, in Svezia. L’intento dell’esposizione è quello di portare i visitatori alla consapevolezza che anche i colossi contemporanei non sono perfetti. Nella mostra vengono presentati più di cento errori che hanno fatto la storia: ognuno di essi ispira il visitatore a vedere l’insuccesso come un passaggio fondamentale verso l’innovazione.

Succede anche ai migliori brand…

Gli errori dei brand possono essere molteplici: da una mancanza di coerenza identitaria a un fallimentare studio del mercato, fino a una funzionalità e un pricing poco strategici o a un naming inadeguato.
Naturalmente anche un design inappropriato miete le sue vittime, come quello di una maschera di bellezza, esposta al museo, che ricorda un film dell’orrore.

Dalle lasagne Colgate ai profumi Harley-Davidson

Per quanto riguarda il branding, un colossale tentativo di brand extension finito male è costituito dalle lasagne surgelate della Colgate, uscite sul mercato nel 1982.
I consumatori, di fronte al noto marchio, non sono riusciti a scindere l’universo alimentare da quello dell’igiene orale, immaginando lasagne al gusto di dentifricio: a fronte delle scarsissime vendite, il prodotto venne presto ritirato dal mercato.
Dall’altro lato, anche il senso di pulizia e freschezza garantito dai prodotti di Colgate risultò intaccato dall’associazione con le lasagne, tanto che la vendita dei loro dentifrici registrò un calo. Fu un fallimento su tutta la linea, nato da una scarsa consapevolezza in merito alle caratteristiche del proprio brand e ai valori ad esso associati.

Per un brand è quindi fondamentale conoscere e rispettare la propria identità, il proprio pubblico e l’immagine che questo percepisce del marchio.
Pensiamo ad Harley-Davidson che nel 1996, lanciando una fragranza da uomo, tradì quello spirito libero e “selvaggio”, tipico dei motociclisti, che fece la fortuna del suo brand.

New Coke, nuova consapevolezza

Non tutti i fallimenti vengono per nuocere, comunque: 36 anni fa, è stato un colossale “passo falso” della Coca Cola a permettere al brand di riconnettersi con i suoi consumatori.
Negli anni ‘80, una ricerca di mercato rivelò che molti consumatori preferivano il gusto della Pepsi, leggermente più dolce, a quello della Coca Cola. Venne così avviata la sperimentazione di una nuova versione della bevanda, organizzando dei focus group per testarla: la maggior parte dei partecipanti, a cui venne fatta assaggiare “a scatola chiusa”, la preferirono sia alla Pepsi, sia alla Coca Cola originale.

In occasione del centenario della multinazionale, la storica bevanda venne quindi sostituita da una sua versione più dolce, la New Coke, che debuttò nell’aprile 1985 in Canada e negli USA.


La sede della Coca Cola fu bombardata da migliaia di telefonate e lettere di protesta e, fra tentativi di boicottaggio e dichiarazioni di Fidel Castro, che definì la New Coke un segno della “decadenza capitalista americana”, una cosa divenne chiara a tutti: non si poteva cambiare radicalmente un prodotto che da cent’anni faceva parte della storia americana. A soli 79 giorni dal lancio della nuova bevanda, Coca Cola fu costretta a fare retromarcia, rimettendo in commercio la vecchia formula.

Nonostante i risultati dei focus group testimoniassero l’apprezzamento del nuovo gusto, il legame affettivo con la “vecchia” Coca Cola era molto più forte: poco conta il fatto che la New Coke fosse più dolce, gli americani volevano la stessa bevanda bevuta dai loro nonni e bisnonni. La querelle ebbe il merito di riavvicinare i consumatori alla Coca Cola in un periodo in cui rischiava di venir sorpassata dalla Pepsi: la sua breve assenza permise alle persone di rendersi conto di quanto la bevanda, nella sua versione originale, fosse importante nella loro vita. Coca Cola assunse degli psicologi per ascoltare le oltre 1500 telefonate giornaliere di clienti che rivolevano la vecchia Coke: l’analisi degli specialisti mise in luce come molte di queste fossero associabili, come tono ed espressioni utilizzate, ai discorsi di chi ha appena subìto un lutto in famiglia.
Perdendo la vecchia Coca Cola, i consumatori non persero solo una bevanda, ma una memoria personale e collettiva, un pezzo di storia americana.
Il brand, influenzato dalle tendenze del momento, si era messo a rincorrere il suo competitor, dimenticando il patrimonio storico e culturale che si portava dietro.
Come dichiarato da Donald Keough, che dirigeva la Coca Cola in quel periodo, la cosa migliore da fare era ammettere di aver commesso un errore. Nessuno è perfetto, l’importante è rimediare.

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