Nel campo dell’advertising, la forza di un grande creativo sta nel fatto di riuscire a esprimersi appieno in ogni circostanza, trovando il giusto compromesso fra arte e pubblicità, creatività ed esigenze commerciali.
Un esempio virtuoso è costituito dal grande regista Ingmar Bergman, che all’inizio degli anni ‘50 si dedica a una serie di spot per una marca di saponi svedese.
Bergman e la pubblicità: com’è successo?
È il 1951: Ingmar Bergman ha 33 anni, sei bambini e tre famiglie da mantenere, mentre nell’industria cinematografica svedese impazza lo sciopero, per protestare contro le alte tasse del governo sull’intrattenimento.
Il regista, che ha un disperato bisogno di soldi, accetta la proposta di dirigere una serie di nove spot di poco più di un minuto l’uno. Il brief del cliente è semplice: ogni episodio deve illustrare l’elemento di novità del sapone antibatterico Bris, il primo con proprietà deodoranti, attraverso lo slogan “fri, frisk, frasche”.
Nonostante la collaborazione nasca per scopi meramente economici, Bergman saprà sfruttare l’occasione per sperimentare qualcosa di nuovo.
Gli spot di Ingmar Bergman per il sapone Bris
Tutti lo conoscono per la morte che gioca a scacchi e per film densi di significato e mal di vivere, incentrati su temi come i rapporti di coppia, la malattia, l’esistenza di Dio e il suo silenzio.
Sorprende, quindi, che gli spot da lui realizzati siano leggeri, fanciulleschi e spensierati: in uno di questi il sapone è inventato in sogno e viene considerato degno di un Nobel, in un altro è frutto dell’ingegno di un guardiano di porci, che viene ricompensato con cento baci dalla principessa (una Bibi Anderson al suo debutto).
Bergman si diverte a costruire scenette surreali e futuriste animate da figure sospese fra il meraviglioso e il grottesco: batteri in calzamaglia bianca rincorsi da saponi giganteschi in mezzo a foreste di peli; scienziati pazzi; figuranti in costumi settecenteschi che si aggirano tra cortigiani da operetta.
Assistiamo poi a spettacoli di marionette, a sequenze animate… insomma, sembra che Bergman abbia voluto costruire un mondo fantastico nel quale ritrovare il sé bambino che, con gli occhi pieni di meraviglia, scopriva la magia del cinema.
Quello che Bergman conduce non è altro che un gioco di prestigio, in cui la linea di confine fra realtà e sogno, come nel suo cinema, è fluida ed evanescente: la passione per il teatro e per l’arte di Méliès si manifesta in un gioco di finzioni, illusioni e ammiccamenti con lo spettatore, in cui è lo stesso regista-“mago” a svelare il trucco cinematografico. Ad esempio, l’episodio intitolato “Gustav III” si apre con una scena alla corte del più celebre re svedese, ma un movimento di macchina ci svela che ci troviamo sul set dello spot che stiamo guardando e un’attrice, di fronte a un tavolo, legge lo slogan del marchio, evidenziando quella commistione fra finzione e realtà che è propria del cinema e, suggerisce Bergman, anche della pubblicità.
L’influenza degli spot nella cinematografia di Bergman
Più che una costrizione, i nove spot sembrano costituire, per il regista, una fonte di evasione dalla sua consueta poetica: come spiega Francesco Bono, professore di Cinema, “in queste pubblicità le ossessioni bergmaniane sono presenti in ogni scena, ma vanno viste in una chiave liberatoria”.
Per quanto strano possa sembrare, gli spot del sapone Bris si inseriscono perfettamente all’interno della cinematografia di Bergman, introducendo una leggerezza, un umorismo e una vivace giocosità che, seppur in contrasto con la nomea di regista serio e tragico con cui è noto ai posteri, ritroveremo in opere come “Donne in attesa” (1952) e “Sorrisi di una notte d’estate” (1955).
Torneranno anche i riferimenti alla fiaba e alla magia: il bosco di cartapesta che fa da sfondo allo spot della principessa e del porcaio precorre “Il flauto magico” (1974), mentre la figura del presentatore che introduce lo spettacolo di magia rimanda a “L’occhio del diavolo” (1960) e il batterio in mantello scuro, con un cappello a falda larga, che insegue la goccia di sudore, evoca uno stregone che sembra uscito dal medioevo de “Il settimo sigillo” (1957). Inoltre, nei nove spot troviamo molti dei dispositivi stilistici e dei motivi che Bergman avrebbe utilizzato in seguito nei suoi grandi capolavori: specchi, doppi, l’azione di entrare o uscire da una storia come con un telescopio.
In definitiva, gli spot del sapone Bris costituiscono un vero e proprio anello di congiunzione all’interno della produzione cinematografica del regista.
Ingmar Bergman fra cinema e pubblicità
“Mi divertii a provocare lo stereotipico settore pubblicitario”, ha affermato Bergman, “potevo fare con il messaggio commerciale tutto quello che volevo”. Forse si può dire che il regista abbia piegato l’advertisement al suo volere, prendendosene gioco e sfruttandolo per sperimentare nuove forme narrative per il suo cinema, ma al contempo si è adeguato ai suoi schemi. Lo sostiene Oliviero Toscani: “Sono rimasto impressionato dalla velocità e dal ritmo degli spot di Bergman. Quello che si pensava dovesse essere l’ultimo a fare pubblicità ha invece dimostrato di essere stato il primo a intuirne le potenzialità. Senza cedere a contorsioni intellettuali e snobistiche”.
Insomma: Ingmar Bergman ha trovato il giusto compromesso fra cinema e advertising, arte e pubblicità.
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