“La birra è donna”, verrebbe da dire.
Storicamente, l’advertising ha sempre associato questa bevanda alla figura femminile, ma – che sia “bruna” o che sia “bionda” – a lei non era concesso berla: la donna, affianco alla bottiglia o al boccale stracolmo, diventava un oggetto del desiderio per l’uomo, al pari della birra.
L’associazione fra la sensualità femminile e la birra parte già dalla fine del XIX secolo, raggiungendo la sua più celebre manifestazione italiana con la Birra Peroni negli anni ‘70: Solvi Stübing arriva a personificare la bevanda stessa (“Chiamami Peroni, sarò la tua birra”), associando il piacere del consumo di birra a quello sessuale.
La bottiglia, in mezzo alle prosperose forme dell’attrice, assume perfino una forma vagamente fallica.
In linea con la dicotomia maschilista secondo cui le donne si dividono in “sante” e “poco di buono”, quando le figure femminili non sono connotate come oggetti sessuali, esse vengono raffigurate come angeli del focolare: ecco quindi spiegato un altro filone di pubblicità classiche dei marchi di birra, quelle che vedono la donna come casalinga che serve la birra al marito.
Qui la donna non è oggetto sessuale, ma è comunque al servizio dell’uomo: il consumo di birra continua ad esserle negato.
Ma come mai questa bevanda viene tradizionalmente ricondotta al consumo maschile?
Fra le varie motivazioni c’è sicuramente il retaggio di un’epoca in cui non era considerato “accettabile” per le signore rispettabili bere in pubblico e frequentare bar e locande. Questi locali, che nei secoli scorsi avevano accolto la più grezza e sudicia umanità, vennero associati alla natura stessa della birra, decisamente meno sofisticata del vino e di altre bevande alcoliche.
La birra, dunque, divenuta simbolo della mascolinità più sguaiata, trasmetteva un messaggio dissonante quando consumata da una donna: ancora oggi, può capitare di sentir definire “volgare” una donna che beve birra.
Questo risulta assurdo se si pensa alla storia della birra, creata in Mesopotamia intorno al 4500 a.C. proprio grazie ad una donna, e in seguito associata a divinità femminili della fertilità come Ninkasi, venerata dai sumeri come “dea della birra”. Si dice che quest’ultima fosse nata, come la birra, per “soddisfare il desiderio e appagare il cuore”, e questo sembra ricondurci al discorso dell’oggettivazione femminile legata alla bevanda. Tuttavia, il consumo della birra non risultava essere prerogativa esclusivamente maschile: a Creta gli affreschi, fra il 2000 e il 1450 a.C., non si facevano problemi a mostrare donne intente a bere birra, bevanda che fu apprezzata in seguito anche da Cleopatra, che ne favorì l’esportazione nell’Impero Romano.
Insomma, la birra è nata come bevanda per tutti, in barba agli stereotipi. Per fortuna, le donne sembrano sempre più intenzionate a lasciarsi alle spalle qualunque preconcetto: secondo l’indagine “Gli Italiani e la birra” di AssoBirra, il 70% delle italiane consuma birra e il 30% di loro lo fa almeno due volte a settimana. Tra donne e uomini, per quanto concerne il consumo di birra, non sembrano esserci grandi disparità, in Italia come in gran parte del mondo, e il consumo femminile è decisamente aumentato rispetto a qualche decennio fa.
Per questo sorprende che molti marchi di birra continuino a comunicare prevalentemente (se non esclusivamente) con il pubblico maschile.
Certo, una comunicazione virata su binari stereotipicamente femminili risulterebbe altrettanto discriminatoria, se non addirittura offensiva: le donne non hanno bisogno di sfondi rosa, brillantini e cuoricini per acquistare un prodotto, né tantomeno hanno bisogno di una birra “per donne” (sebbene se ne possano enumerare alcuni, obbrobriosi, tentativi).
Tuttavia, risulta evidente come certi marchi di birra virino a loro volta su stereotipi marcatamente maschili. E, fra una goliardiata e una pacca sulla spalla fra uomini, si compie ancora l’errore di dipingere la donna come un oggetto.
I tempi di “Sono la tua birra” sono passati, ma perfino un brand socialmente consapevole come Ceres rischia di cadere nella trappola dell’oggettificazione quando suggerisce all’uomo di sfruttare i piedi della sua donna per raffreddare la birra, con annesso riferimento al feticismo del piede.
Il marchio continua a parlare all’uomo, la donna è sempre quella che versa la birra o che gliela mette in fresco, mentre il doppio senso di natura sessuale è sempre dietro l’angolo.
I marchi di birra che riescono a distinguersi in questo senso sono pochi, e sempre in campagne isolate.
L’anno scorso, ad esempio, in occasione della Festa della Donna, Budweiser ha modificato alcune sue pubblicità sessiste del passato in collaborazione con #SeeHer, un’organizzazione che si occupa di promuovere una corretta raffigurazione femminile nei media.
Le vecchie pubblicità, risalenti agli anni ‘50 e ‘60, raffiguravano mogli intente a soddisfare le esigenze dei propri mariti, dipinti come gli unici consumatori di birra all’interno della coppia.
Le versioni corrette mostrano invece donne che bevono birra con il proprio marito, ma anche con le loro amiche o da sole, in piena parità con gli uomini.
A tentare di scardinare il punto di vista maschile che domina il settore ci ha pensato, con qualche controversia, il marchio di birra Coors, che nel 2016 si era distinto con alcuni spot molto apprezzati in cui valori come la competizione e il raggiungimento dei propri obiettivi, solitamente ricondotti a figure maschili, erano volti al femminile.
L’anno scorso, invece, Coors ha presentato uno spot che volgeva più sull’ironia e sul quotidiano (“The Official Beer Of Being Done Wearing A Bra”) con una sequenza in cui una ragazza torna a casa sfinita e si toglie il reggiseno, rilassandosi con una birra.
Il tentativo, in parte riuscito, era quello di far immedesimare le proprie consumatrici proponendo il punto di vista di una donna, ma non sono mancate le critiche di chi ha visto anche in questo spot un oggettificazione del corpo femminile. Il confine è certamente molto labile, ma bisogna ammettere che tale sequenza non presenta connotazioni sessuali evidenti, soprattutto in contrasto con un altro spot di Coors molto più vecchio (parliamo del 2003) che presenta donne in carriera, sensuali e sicure di sé, ma filtrate attraverso lo sguardo maschile: sono donne di successo anche perché piacciono agli uomini, e infatti lo spot termina sullo sguardo di tre uomini allupati.
Se invece parliamo di stereotipi da scardinare in merito al consumo di birra, il lavoro migliore l’ha fatto Heineiken con uno spot uscito a febbraio: nella sequenza, le donne ordinano la birra e gli uomini i cocktail. I camerieri, influenzati dagli stereotipi di genere, invertono le ordinazioni.
Il titolo dello spot, “Cheers To All”, dimostra quanto l’advertising debba rivolgersi a tutti al di là di ogni stereotipo, per rispondere a un pubblico di consumatori che non si pone più barriere.
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