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Donne e birra, advertising oltre gli stereotipi di genere

26 Giugno 2020

“La birra è donna”, verrebbe da dire.

Storicamente, l’advertising ha sempre associato questa bevanda alla figura femminile, ma – che sia “bruna” o che sia “bionda” – a lei non era concesso berla: la donna, affianco alla bottiglia o al boccale stracolmo, diventava un oggetto del desiderio per l’uomo, al pari della birra.

L’associazione fra la sensualità femminile e la birra parte già dalla fine del XIX secolo, raggiungendo la sua più celebre manifestazione italiana con la Birra Peroni negli anni ‘70: Solvi Stübing arriva a personificare la bevanda stessa (“Chiamami Peroni, sarò la tua birra”), associando il piacere del consumo di birra a quello sessuale.
La bottiglia, in mezzo alle prosperose forme dell’attrice, assume perfino una forma vagamente fallica.


Donne e birra, advertising oltre gli stereotipi di genere

In linea con la dicotomia maschilista secondo cui le donne si dividono in “sante” e “poco di buono”, quando le figure femminili non sono connotate come oggetti sessuali, esse vengono raffigurate come angeli del focolare: ecco quindi spiegato un altro filone di pubblicità classiche dei marchi di birra, quelle che vedono la donna come casalinga che serve la birra al marito.
Qui la donna non è oggetto sessuale, ma è comunque al servizio dell’uomo: il consumo di birra continua ad esserle negato.

Ma come mai questa bevanda viene tradizionalmente ricondotta al consumo maschile?

Fra le varie motivazioni c’è sicuramente il retaggio di un’epoca in cui non era considerato “accettabile” per le signore rispettabili bere in pubblico e frequentare bar e locande. Questi locali, che nei secoli scorsi avevano accolto la più grezza e sudicia umanità, vennero associati alla natura stessa della birra, decisamente meno sofisticata del vino e di altre bevande alcoliche.
La birra, dunque, divenuta simbolo della mascolinità più sguaiata, trasmetteva un messaggio dissonante quando consumata da una donna: ancora oggi, può capitare di sentir definire “volgare” una donna che beve birra.

Questo risulta assurdo se si pensa alla storia della birra, creata in Mesopotamia intorno al 4500 a.C. proprio grazie ad una donna, e in seguito associata a divinità femminili della fertilità come Ninkasi, venerata dai sumeri come “dea della birra”. Si dice che quest’ultima fosse nata, come la birra, per “soddisfare il desiderio e appagare il cuore”, e questo sembra ricondurci al discorso dell’oggettivizzazione femminile legata alla bevanda. Tuttavia, il consumo della birra non risultava essere prerogativa esclusivamente maschile: a Creta gli affreschi, fra il 2000 e il 1450 a.C., non si facevano problemi a mostrare donne intente a bere birra, bevanda che fu apprezzata in seguito anche da Cleopatra, che ne favorì l’esportazione nell’Impero Romano.

Insomma, la birra è nata come bevanda per tutti, in barba agli stereotipi. Per fortuna, le donne sembrano sempre più intenzionate a lasciarsi alle spalle qualunque preconcetto: secondo l’indagine “Gli Italiani e la birra” di AssoBirra, il 70% delle italiane consuma birra e il 30% di loro lo fa almeno due volte a settimana. Tra donne e uomini, per quanto concerne il consumo di birra, non sembrano esserci grandi disparità, in Italia come in gran parte del mondo, e il consumo femminile è decisamente aumentato rispetto a qualche decennio fa.

Per questo sorprende che molti marchi di birra continuino a comunicare prevalentemente (se non esclusivamente) con il pubblico maschile.
Certo, una comunicazione virata su binari stereotipicamente femminili risulterebbe altrettanto discriminatoria, se non addirittura offensiva: le donne non hanno bisogno di sfondi rosa, brillantini e cuoricini per acquistare un prodotto, né tantomeno hanno bisogno di una birra “per donne” (sebbene se ne possano enumerare alcuni, obbrobriosi, tentativi).

Tuttavia, risulta evidente come certi marchi di birra virino a loro volta su stereotipi marcatamente maschili. E, fra una goliardiata e una pacca sulla spalla fra uomini, si compie ancora l’errore di dipingere la donna come un oggetto.
I tempi di “Sono la tua birra” sono passati, ma perfino un brand socialmente consapevole come Ceres rischia di cadere nella trappola dell’oggettificazione quando suggerisce all’uomo di sfruttare i piedi della sua donna per raffreddare la birra, con annesso riferimento al feticismo del piede.
Il marchio continua a parlare all’uomo, la donna è sempre quella che versa la birra o che gliela mette in fresco, mentre il doppio senso di natura sessuale è sempre dietro l’angolo.


Donne e birra, advertising oltre gli stereotipi di genere - ceres

I marchi di birra che riescono a distinguersi in questo senso sono pochi, e sempre in campagne isolate.

L’anno scorso, ad esempio, in occasione della Festa della Donna, Budweiser ha modificato alcune sue pubblicità sessiste del passato in collaborazione con #SeeHer, un’organizzazione che si occupa di promuovere una corretta raffigurazione femminile nei media.

Le vecchie pubblicità, risalenti agli anni ‘50 e ‘60, raffiguravano mogli intente a soddisfare le esigenze dei propri mariti, dipinti come gli unici consumatori di birra all’interno della coppia.
Le versioni corrette mostrano invece donne che bevono birra con il proprio marito, ma anche con le loro amiche o da sole, in piena parità con gli uomini.


Donne e birra, advertising oltre gli stereotipi di genere – budweiser

A tentare di scardinare il punto di vista maschile che domina il settore ci ha pensato, con qualche controversia, il marchio di birra Coors, che nel 2016 si era distinto con alcuni spot molto apprezzati in cui valori come la competizione e il raggiungimento dei propri obiettivi, solitamente ricondotti a figure maschili, erano volti al femminile.
L’anno scorso, invece, Coors ha presentato uno spot che volgeva più sull’ironia e sul quotidiano (“The Official Beer Of Being Done Wearing A Bra”) con una sequenza in cui una ragazza torna a casa sfinita e si toglie il reggiseno, rilassandosi con una birra.
Il tentativo, in parte riuscito, era quello di far immedesimare le proprie consumatrici proponendo il punto di vista di una donna, ma non sono mancate le critiche di chi ha visto anche in questo spot un oggettificazione del corpo femminile. Il confine è certamente molto labile, ma bisogna ammettere che tale sequenza non presenta connotazioni sessuali evidenti, soprattutto in contrasto con un altro spot di Coors molto più vecchio (parliamo del 2003) che presenta donne in carriera, sensuali e sicure di sé, ma filtrate attraverso lo sguardo maschile: sono donne di successo anche perché piacciono agli uomini, e infatti lo spot termina sullo sguardo di tre uomini allupati.

Se invece parliamo di stereotipi da scardinare in merito al consumo di birra, il lavoro migliore l’ha fatto Heineiken con uno spot uscito a febbraio: nella sequenza, le donne ordinano la birra e gli uomini i cocktail. I camerieri, influenzati dagli stereotipi di genere, invertono le ordinazioni.

Il titolo dello spot, “Cheers To All”, dimostra quanto l’advertising debba rivolgersi a tutti al di là di ogni stereotipo, per rispondere a un pubblico di consumatori che non si pone più barriere.

Vuoi consigli su come comunicare efficacemente con i tuoi consumatori? Contattaci.

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Piano sequenza: dal cinema all’advertising

16 Giugno 2020

Il videomaking è parte fondamentale della nostra attività come agenzia creativa, in linea con la nostra passione per il cinema, a cui vogliamo dedicare sempre più spazio nel nostro blog.
Oggi parliamo del piano sequenza, tecnica cinematografica che consiste nel filmare una sequenza narrativa piuttosto lunga in una sola ripresa, senza stacchi di montaggio. 
Questa tecnica favorisce una maggiore immersività da parte dello spettatore, che – senza gli artifici del montaggio – può percepire la scena come se stesse avvenendo davanti ai suoi occhi.

Il piano sequenza è recentemente salito alle cronache grazie al film 1917 di Sam Mendez, che quest’anno è stato candidato a 10 premi Oscar, tra cui Miglior regia e Miglior film.
Il regista ha utilizzato questa tecnica allo scopo di catapultare lo spettatore al centro dell’azione, costituita dagli scontri della Prima Guerra Mondiale.

Piano sequenza: vero o falso?

Il punto forte del piano sequenza sta proprio nel fatto di dare allo spettatore un maggior senso di realismo.
La difficoltà maggiore, sia per i registi che per gli interpreti, sta nel fatto di dover girare una sequenza (o un intero film) senza poter mai staccare la cinepresa. 
Per questo motivo, nella maggior parte dei casi, si tratta di “finti” piani sequenza, con stacchi abilmente mascherati dai registi.
Non vorremmo deludervi, ma questo è anche il caso di 1917, realizzato con un sapiente lavoro di post-produzione.
Il primo regista ad utilizzare quest’escamotage era stato Alfred Hitchcock con Nodo Alla Gola (1948), che presentava una storia raccontata in dieci scene realizzate in piano sequenza, della durata di 10 minuti ciascuna.
Perché dieci minuti, vi chiederete?
Perché era questa la lunghezza massima di pellicola che un rullo poteva contenere.
Questo limite tecnico porta quindi alla nascita del primo “finto” piano sequenza: Hitchcock aveva infatti collegato abilmente fra loro le varie scene con stacchi di montaggio, abilmente mascherati sfruttando le superfici scure che passavano davanti alla cinepresa, dalle schiene dei personaggi a pareti e armadi.

Piano sequenza d’introduzione

Uno dei più celebri piani sequenza della storia del cinema è costituito dalla scena iniziale de L’infernale Quinlan (1958) di Orson Welles.

Da quel momento, il cinema ha fatto ampio utilizzo del piano sequenza in apertura, come in Una giornata particolare (1977) di Ettore Scola e in Boogie Nights (1997) di Paul Thomas Anderson.
Il piano sequenza, con la convergenza di tempo reale e tempo cinematografico, può essere un modo efficace per introdurre i personaggi nella loro quotidianità, evidenziandone gli aspetti più lenti e monotoni attraverso i tempi morti che normalmente vengono tagliati dal montaggio.
Un ruolo ancora più fondamentale lo assume l’introduzione dell’ambiente in cui avrà luogo la vicenda: il piano sequenza invita lo spettatore a visitarlo, spesso in compagnia dei personaggi.
Gli esempi sono numerosi, anche in scene non di apertura: ricordiamo ad esempio il celeberrimo ingresso nel locale in Quei bravi ragazzi (1990) di Martin Scorsese, che riprende l’escamotage della cinecamera che segue i personaggi, presente in L’infernale Quinlan e in gran parte dei piani sequenza più celebri.

Un caso più recente è quello di Alfonso Cuarón in Gravity (2013), che, introduce lo spazio cosmico con un piano sequenza d’apertura di 17 minuti che gli è valso il Premio Oscar come Miglior Regista.

Spettatore coinvolto nell’azione

Se nei precedenti casi la funzione dello spettatore era semplicemente quella di visitatore, altri film possono accentuare la sua immedesimazione nella storia proprio grazie al piano sequenza.
Arca Russa (2002) di Aleksandr Sokurov, primo film realizzato in piano sequenza senza trucchi di montaggio, gioca proprio su questo: lo sguardo del protagonista è quello dello spettatore che, all’interno del Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo, non è più solo visitatore, ma diventa un personaggio vero e proprio, in un incredibile viaggio nel tempo, a metà fra sogno e realtà.

Piano sequenza e improvvisazione

La natura del piano sequenza, che impedisce agli attori di sbagliare, da un lato può essere fonte di infiniti “retake”, dall’altro può favorire l’improvvisazione e la genuinità dell’interpretazione dando un tocco “rough” alla pellicola, che comincia ad assomigliare più a un documentario che a un film.
Vediamo un esempio di questo in un altro dei pochissimi film che utilizza il piano sequenza per tutta la sua durata, senza trucchi e senza inganni: Victoria (2015) di Sebastian Schipper, girato e ambientato dalle 4:30 alle 7 del mattino.
Gran parte del film era improvvisato e il regista ha raccontato che la stanchezza e l’esasperazione degli attori ha dato un tocco in più alla loro interpretazione.

Piano sequenza nell’advertising

Come nel cinema, anche nell’advertising le funzionalità del piano sequenza possono risultare interessanti, anche in un’ottica sovversiva.
La marca di whiskey Johnnie Walker, ad esempio, gioca a sovvertire l’unità spazio temporale riprendendo la classica camminata in piano sequenza, ma con un personaggio che entra ed esce da ambientazioni differenti.

Anche Volvo Trucks sovverte uno dei capisaldi del piano sequenza, il senso di realismo, con uno spot che mette in scena un’improbabile quanto esilarante schiacciata di Jean-Claude Van Damme a metà fra due camion.

Aibnb ci porta invece in una rocambolesca corsa che, lo ammettiamo, ci ha fatto venire i brividi ripensando a Shining…

Ma negli ultimi anni gli spot in piano sequenza che hanno riscosso più successo sono quelli che presentano un’azione organizzata di gruppo che prende vita attorno allo spettatore, un po’ come un flashmob.
La logica è simile a quella dei musical: possiamo fare l’esempio di La La Land (2016) di Damien Chazelle, che si apre con un numero musicale in piano sequenza in cui i guidatori, fermi nel traffico, escono dalle automobili e si mettono a ballare attorno alla cinepresa, quindi attorno allo spettatore.

Questa sensazione viene ripresa in spot come quello del Sunday Times, in cui più persone, in piano sequenza, si uniscono ricreando momenti iconici del cinema, della musica, dell’arte.
La meraviglia dello spettatore sta proprio nella percezione che quello che vede sia stato ricreato in un solo “shot”, quindi è come se prendesse vita davanti ai suoi occhi, seppur in differita.

Un altro esempio è la complessa coreografia messa in scena da Xperia.

Queste elaborate composizioni ci ricordano quanto l’efficacia di un piano sequenza dipenda dalla ricchezza della coreografia, nonché dalla profonda connessione fra gli attori e l’ambiente che li circonda.
ll piano sequenza, non potendo contare sul ritmo delle inquadrature e su altri effetti tipici del montaggio, è una tecnica complessa.
In molti casi, tuttavia, può costituire una scelta audace e vincente: non a caso, tutte le scene che abbiamo citato hanno fatto la storia del cinema…

Vuoi sapere di più? contattaci.

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Black Lives Matter, come i brand possono esprimersi sulle discriminazioni

5 Giugno 2020

Black Lives Matter è il movimento che risponde alla violenza ingiustificata delle forze dell’ordine statunitensi nei confronti delle persone afro-americane. Lo scorso martedì, i social sono stati sommersi da immagini a sfondo nero in occasione del #BlackOutTuesday, istituito come risposta all’omicidio di George Floyd per mano di quattro poliziotti: a fronte di questo tragico evento, tutti hanno voluto prendere una posizione a favore del Black Lives Matter, inclusi i brand più importanti.


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#BlackOutTuesday: i messaggi dei brand

Fra i protagonisti di questo #BlackOutTuesday c’è sicuramente la Nike.

Il brand prende di nuovo posizione a favore del #BlackLivesMatter dopo la celebre campagna del 2018, realizzata per il trentesimo anniversario del payoff “Just Do It”.
In quell’occasione, Nike aveva scelto come testimonial Colin Kaepernick, ex quaterback della National Football League, celebre per essersi inginocchiato durante l’inno nazionale americano prima delle partite: una protesta verso la discriminazione delle minoranze etniche negli Stati Uniti, che aveva causato l’allontanamento dello sportivo dalla NFL.

Per questo motivo, il messaggio di Nike era: “Credi in qualcosa. Anche se questo significa sacrificare tutto”.
L’impatto della campagna era stato molto forte, attirando l’attenzione di Donald Trump, che l’aveva bollato come “un messaggio terribile”.


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A seguito dell’omicidio di George Floyd, Nike riprende l’attacco alle discriminazioni razziali ripartendo dal suo claim, qui invertito (“Don’t do it”), a cui segue una lista di esortazioni al negativo: “Per una volta non farlo, non fingere che in America non ci sia un problema. Non voltare le spalle al razzismo”, concludendo con “Let’s all be part of the change”.

Sulla scia di Nike, tutti i più grandi brand si sono alleati alla causa, cambiando le proprie foto profilo – l’hanno fatto anche i principali social network – e pubblicando immagini con testo bianco su sfondo nero per esprimere la propria vicinanza al movimento Black Lives Matter.

Inutile dire che la comunicazione dei brand su questo tema ha cominciato presto ad apparire monotona, anche solo per l’uniformità cromatica.

Ma il rischio più grosso, per un brand, è quello di apparire poco genuino o, peggio ancora, ipocrita.

È il caso di L’Oreal Paris che, dopo aver espresso sostegno alla causa, si è vista arrivare una “shitstorm” imprevista: la modella Munroe Bergdorf li ha accusati di averla licenziata nel 2017 perché si era espressa pubblicamente in merito a questioni razziali, puntando il dito contro la “white supremacy”.


twitter-Munroe-Bergdorf-accusa-L-Oreal-Paris

Black Lives Matter: i brand devono scendere in campo?

Risulta chiaro, quindi, come esprimersi su un tema così delicato possa costituire un’arma a doppio taglio.

La prima domanda che un brand deve porsi, di fronte ad avvenimenti di questo tipo, è se si possa permettere o meno di scendere in campo.

Come si suol dire, “Un bel tacer non fu mai scritto”: se non ci si sente sufficientemente preparati per intervenire sull’argomento, potrebbe essere meglio non farlo per evitare che la situazione ci si rivolti contro.

Tuttavia, nel caso del #BlackOutTuesday, non esprimersi sul tema avrebbe potuto costituire un problema: con il mondo social interamente volto alla causa, un brand che non parla può fare più rumore di tutti gli altri. Soprattutto quando si tratta di questioni così importanti, specie di natura discriminatoria, non prendere una posizione equivale ad essere complici.

Se in alcune occasioni può essere lecito (o addirittura consigliato) per un brand non esprimersi se non ha un messaggio di valore da condividere, come nel caso del #BlackHistoryMonth, di fronte a fatti di cronaca come l’omicidio di George Floyd non si può rimanere in silenzio.

Questo vale, oggi, soprattutto per gli Stati Uniti – i brand italiani, infatti, hanno in gran parte sorvolato sull’argomento – ma nell’ottica di una società sempre più multietnica, anche chi comunica nel nostro Paese deve imparare a prendere posizione di fronte a eventi di questo genere, facendolo nel modo giusto.

Black Lives Matter e brand, i nostri consigli

Chiedete scusa, rimediate, imparate

Non è un segreto che, perfino in anni più recenti, i brand abbiano realizzato campagne pubblicitarie razziste, anche involontariamente.
Nell’era dei social, questi “scheletri” saranno tirati fuori dall’armadio in occasioni come queste, non appena esprimerete il vostro sostegno alla causa.

Il consiglio è quello di giocare d’anticipo: chiedete scusa per i vostri errori passati. I consumatori sono disposti a perdonare un brand se questo ammette pubblicamente di aver sbagliato e cerca di rimediare, magari proponendo una versione “politicamente corretta” delle campagne considerate razziste.

Un’attenuante può sicuramente essere costituita dal periodo storico in cui tali errori sono stati commessi, soprattutto se è passato molto tempo.
Per secoli abbiamo vissuto la supremazia dell’uomo bianco: se certi messaggi razzisti venivano veicolati era colpa più della società che del singolo brand, e questo i consumatori lo sanno.

Se l’errore è più recente, può comunque essere utile ammettere la propria ignoranza: anche se viviamo da tempo in una società multiculturale, abbiamo ancora tanto da imparare in fatto di integrazione.
Non c’è niente di male ad ammetterlo, se si è volenterosi di rimediare.

Ascoltate e date spazio alle persone di colore

Mai come negli ultimi anni, i media hanno veicolato rappresentazioni di etnie diverse da quella caucasica. Gli ideali di bellezza stanno cambiando e l’inclusività è sempre più incentivata in ogni settore, anche sul mondo del lavoro.

In questa situazione, un brand può evidenziare il fatto di aver dato spazio a persone di colore, nelle sue campagne pubblicitarie e nel suo workplace, ma senza che questo appaia come un’ostentazione, una strategia pensata a tavolino, un’azione di carità o un “favore” fatto alle minoranze etniche.

Disney, ad esempio, esprime vicinanza ai suoi artisti, sceneggiatori e impiegati neri, mentre TikTok mette in luce l’importanza del contributo dei “creators” di colore: la comunicazione di entrambi a sostegno del Black Lives Matter non appare forzata, perché i soggetti citati vengono valorizzati anche in altri contesti, non solo come “token” d’inclusività.

D’altronde è proprio dal contributo delle persone di colore, che siano testimonial, “creators” o impiegati, che deve partire il discorso: se i blocchi scuri del #BlackOutTuesday simboleggiano i tentativi delle forze dell’ordine e della società americana di “silenziare” le voci della black community, i brand devono dimostrare di saperle ascoltare e farle parlare in prima persona.

Il brand in fondo è un’entità astratta: qualunque discorso possa intraprendere risulterebbe vuoto e incompleto senza l’apporto delle persone prese in causa, che possono capire fino in fondo l’oppressione a cui cerca di rispondere il movimento Black Lives Matter.

Queste voci possono risultare fondamentali sia dietro le quinte che in prima linea: le aziende dovrebbero ascoltare i loro impiegati di colore per capire quale comunicazione possa risultare più adatta alla causa, e magari scegliere proprio i membri della black community come volti del loro brand in campagne a favore del Black Lives Matter: dando la giusta visibilità a chi è coinvolto in prima persona, il messaggio veicolato risulterà genuino e diretto.

Dimostrate di tenere veramente alla causa

L’ultimo consiglio è il più scontato, ma è fondamentale.
Evitate di schierarvi a favore del Black Lives Matter solo quando “lo fanno tutti”, in casi eclatanti come quello appena successo.

Se possibile, contribuite attivamente alla causa in modo costante e continuativo tramite donazioni e/o iniziative di solidarietà volte a raccogliere fondi.

Inoltre, dimostrate alla black community di tenere a loro con prodotti e campagne volte sempre più all’inclusività.

In Italia c’è un problema in questo senso: i brand sembrano essere totalmente all’oscuro dell’esistenza della comunità afro-italiana.
È sulla base di questo mancato riconoscimento che nascono equivoci come quello causato qualche anno fa da Clio Make Up, incolpata dalla youtuber Loretta Grace di non aver creato una linea di trucchi adatta alle carnagioni più scure.

Sebbene l’Italia sia ancora ben lontana dalla multietnicità statunitense, la direzione che la società sta prendendo è questa, e noi dobbiamo farci trovare preparati.
Un brand in grado di comprendere e rispondere in modo efficace a queste dinamiche può anticipare gli altri intraprendendo un percorso che si rivelerà vincente sul lungo periodo.

Vuoi sapere come comunicare in modo efficace su questi temi?
Noi possiamo aiutarti, contattaci.

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Twitch, le opportunità dello streaming in diretta per i brand

28 Maggio 2020

Oggi, quando si parla delle potenzialità dello streaming, non si può non citare Twitch, piattaforma che debutta quest’anno nelle rilevazioni di Blogmeter in merito alle abitudini social degli italiani proprio grazie alla sua rapida crescita nei mesi scorsi.
A differenza di YouTube, in cui gli utenti passano con disinvoltura da un video all’altro, la particolarità di Twitch è che si basa sullo streaming in diretta, con utenti disposti a seguire singoli sessioni che possono durare anche svariate ore, con un alto grado di interazione. Un’opportunità unica, e non ancora pienamente sfruttata dalle aziende, per raggiungere un pubblico molto specifico.
Ma andiamo con ordine.

Cos’è Twitch?

Twitch è una piattaforma di livestreaming nata nel 2011 per capitalizzare sull’interesse, riscontrato fra gli utenti della precedente Justin.tv, nell’assistere a sessioni di gioco in diretta: in parole semplici, si tratta di utenti interessati a guardare altri utenti che giocano ai videogiochi.
Negli ultimi anni, tuttavia, stanno crescendo vertiginosamente le visualizzazioni legate ad altre categorie di video, come quelle illustrate dallo schema di Thinknub.


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Il pubblico di Twitch

Twitch raggiunge un pubblico prevalentemente maschile, con un’età che va dai 18 ai 34 anni. Secondo recenti stime, si tratta del 50% dei millennial negli Stati Uniti: un target altamente digitalizzato, con un alto potere di spesa e una propensione agli acquisti online e in-app, che non esita a ‘skippare’ i video pubblicitari di YouTube, ma che guarda senza problemi lunghe dirette su Twitch (per una media di più di due ore al giorno).
Con oltre 15 milioni di utenti attivi, Twitch è infatti il leader dello streaming in quanto a tempo trascorso dagli utenti sulla piattaforma, battendo di gran lunga YouTube, ed è qui che entrano in campo i brand.


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Le opportunità per i brand

Non solo gaming

Non si parla, innanzitutto, solo di brand legati all’industria videoludica. Si possono sponsorizzare prodotti di cui i gamer usufruiscono durante le lunghe sessioni di gioco, come birra, energy drinks o cibo a domicilio, ma di non solo gaming vive Twitch: come dicevamo, sono in forte incremento i video di altre categorie, fra cui “Quattro chiacchiere” (“Just chatting”), che presentano numerose opportunità di product placement.

Entrare in sintonia

Per avere successo fra gli utenti della piattaforma bisogna entrare in sintonia con i suoi contenuti e con chi li produce.
Gli spettatori di Twitch sono insofferenti all’advertising tradizionale, ma si dimostrano aperti a sponsorizzazioni legate ai loro streamer preferiti, in virtù del legame di fiducia che instaurano con loro. I prodotti, quando sono utilizzati direttamente dallo streamer, diventano parte della vita quotidiana anche di tutti i suoi spettatori.

In presa diretta

Comunicare in diretta crea un legame particolare fra lo streamer e lo spettatore, permette maggiore confidenza e favorisce una reazione in tempo reale anche nei confronti del brand sponsorizzato.
Citiamo ad esempio il caso dello streamer Mike “Shroud” Grzesiek, che collabora con Cougar Gaming: è bastata una sua menzione al brand per spingere gli spettatori a visitare in massa il sito della compagnia, che è entrato in “overflow” nel giro di pochi secondi.

Interazione

Spesso sono proprio le reazioni e i commenti degli spettatori ad influenzare l’andamento della diretta e un brand deve saperli sfruttare a suo vantaggio: Old Spice, ad esempio, già cinque anni fa proponeva live-stream interamente “guidati” dalle decisioni degli spettatori.
Non a caso, le azioni di chi guarda vengono valorizzate e messe in luce nella schermata di Twitch: ci sono grafiche che segnalano, ad esempio, quando uno di loro si iscrive al canale, e gli spettatori sono disposti a pagare per far sì che la loro interazione non passi inosservata agli occhi dello streamer. Alla luce di questo, la catena di fast food Wendy’s aveva implementato una funzione per cui, ogni volta che gli spettatori facevano il tifo (attraverso l’acquisto di un “bit”), sullo schermo appariva una cascata di patatine fritte. In questo modo, la reazione degli spettatori non passava inosservata allo streamer tanto quanto la sponsorizzazione di Wendy’s non passava inosservata al suo pubblico.

Intrattenimento

Ed è proprio Wendy’s a spiegare in poche parole come impostare una comunicazione di successo su Twitch: “Invece di interrompere l’intrattenimento con la pubblicità, abbiamo deciso di rendere la nostra pubblicità parte dell’intrattenimento”.
E così lo scorso novembre Wendy’s ha riscosso grande successo grazie alla campagna “Keeping Fortnite Fresh”, che vedeva la mascotte dell’azienda, una ragazza con i capelli rossi e le trecce, comparire durante sessioni di gioco a Fortnite con l’obiettivo di distruggere freezer all’interno dei fast food, tenendo alta la reputazione dell’azienda, notoriamente contraria all’utilizzo di carne di manzo surgelata. Oltre a sponsorizzazioni di questo tipo, i brand possono scendere direttamente in campo aprendo un canale su Twitch su cui trasmettere sessioni di gioco, magari con la collaborazione degli streamer più famosi, oppure lanciare nuovi prodotti con unboxing e giveaway, come hanno fatto brand come Nike e Adidas.
Un caso importante, in Italia, è quello di U.C. Sampdoria, che dimostra di saper puntare efficacemente sulla piattaforma, e sul fenomeno dei tornei virtuali (eSports), aprendo un suo canale Twitch, sui cui propone sessioni di videogiochi come FIFA 20 e altri contenuti di valore per la sua community.

Se vuoi sapere come sfruttare Twitch per la tua azienda, contattaci.

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Messenger Rooms di Facebook: opportunità per il tuo business

21 Maggio 2020

Messenger Rooms di Facebook: cosa sono e come si usano? Possono tornare utili per il nostro business?
Prima di rispondere a queste domande, parliamo di Facebook e delle funzioni che sono state più utilizzate negli scorsi mesi, per capire da dove nasce l’esigenza di introdurre le Messenger Rooms.

Facebook e Messenger Rooms, il preludio

Facebook è stato grande protagonista in questi ultimi mesi: secondo Comscore, a marzo è stato il social network su cui gli utenti hanno trascorso più tempo, con una media di 26 minuti al giorno e una crescita del +49% rispetto all’anno scorso.
La piattaforma ha beneficiato anche del “boom” dei servizi di messaggistica istantanea: l’app più scaricata, in questa categoria, è stata Facebook Messenger, con 1,6 milioni di download a marzo.
L’azienda di Mark Zuckerberg ha inoltre registrato un incremento delle videochiamate tramite Messenger e Whatsapp, che risultano più che raddoppiate in molti paesi, oltre a un aumento delle visualizzazioni delle dirette su Facebook e Instagram.
A fronte di questi risultati, Facebook ha lanciato le Messenger Rooms e incrementato le funzioni di altri servizi basati sulla messaggistica, sulle videochiamate e sulle dirette.
Scopriamo insieme quali sono le novità e come poter sfruttare le Messenger Rooms per il nostro business su Facebook.

Messenger Rooms di Facebook


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Le Messenger Rooms espandono le possibilità precedentemente offerte dal servizio di videochiamata di Messenger. Prima di tutto, permettono di includere fino a 50 persone.
È la persona che crea la stanza a decidere chi può accedervi, ma è possibile rendere la stanza pubblica a tutti i nostri amici.
Alla stanza può partecipare anche chi non rientra fra i nostri contatti e addirittura chi non è iscritto a Facebook, l’importante è possedere il link di accesso alla Room e avere una telecamera e un microfono attivi.
Il sistema è più semplice e immediato rispetto ad una videochiamata, non c’è bisogno di scaricare nessun programma o applicazione.
Facebook stesso ribadisce come, grazie a Messenger Rooms, “Non devi per forza chiamare qualcuno e sperare di averlo colto in un buon momento, o controllare prima l’agenda di tutti”.
Puoi semplicemente condividere le tue Messenger Rooms e, come in una stanza reale, le persone possono entrare e uscire quando vogliono.
Fra le funzionalità di Messenger da sfruttare nelle Rooms, oltre ai soliti filtri, c’è la possibilità di inserire sfondi in stile “green screen” (comparendo in videochiamata con dietro una spiaggia caraibica, ad esempio) o di moderare l’illuminazione dell’inquadratura, magari optando per un’atmosfera più rilassata.

https://www.facebook.com/watch/?v=437984053717571

Facebook, in conclusione, ci tiene a ribadire la garanzia della privacy, viste le controversie che sono sorte recentemente riguardo all’utilizzo di Zoom, che avrebbe reso pubbliche migliaia di registrazioni di videochiamate salvate in cloud.

Facebook, altre novità

Fra le altre novità annunciate dalla piattaforma, troviamo la reintroduzione di “Live With”, con la possibilità di aggiungere un secondo utente ai propri video in diretta su Facebook. Riguardo agli Eventi, alla luce del recente proliferare di “virtual events”, verrà aggiunta la possibilità di segnalare quando un evento è “online only” e, al suo interno, sarà possibile integrare Facebook Live e un sistema di pagamento per gli eventi ad accesso non gratuito.
Inoltre, durante le dirette è ora possibile aggiungere un tasto per le donazioni nel caso di fundraiser no-profit.
Un’altra novità interessante riguarda Facebook Dating che, in linea con altre applicazioni di dating come Tinder, sta implementando una funzione di videochiamata per offrire appuntamenti romantici “virtuali”.


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Messenger Rooms per il tuo business su Facebook

Metterci la faccia

Per chi si chiede come poter sfruttare Messenger Rooms per la propria attività commerciale, la soluzione è semplice: mettendoci la faccia. I consumatori manifestano sempre più la volontà di interagire direttamente con i brand attraverso le persone che li rappresentano.
Con la riapertura dei negozi, questa può essere un’enorme opportunità anche per le piccole attività commerciali, i cui titolari spesso interagiscono con i propri clienti anche per mezzo di profili privati.
Un consumatore trova stimolante sia “scoprire” chi si cela dietro il prodotto, sia “riscoprire” volti già noti: se siete i titolari di un negozio di quartiere, Messenger Rooms può aiutare i vostri clienti e “familiarizzare” nuovamente con voi, stimolandoli a visitare il vostro punto vendita.

Eventi esclusivi

Messenger Rooms sembra fatto apposta per comunicare con le “nicchie”, con il limite massimo di 50 partecipanti e la modalità di “invito” attraverso l’invio del link. Potreste sfruttare la cosa a vostro favore, rendendo la partecipazione alla Room un vero e proprio evento esclusivo, rivolto solo a un numero selezionato di clienti. Potreste lanciare un invito, sulla vostra pagina aziendale, ai primi 49 che si connetteranno, magari promettendo una “ricompensa” finale per chi assisterà all’intera sessione.
Oppure decidere di “invitare” solo gli utenti più attivi sulla pagina. Come succede per la più classica delle carte fedeltà, i vostri clienti più affezionati si sentiranno “lusingati” dal premio ricevuto, legandosi ancor più a voi e al vostro brand.

Contenuti

Naturalmente, nell’era in cui videochiamate, streaming e dirette proliferano, sarà necessario che i contenuti da voi forniti risultino essere di valore per i vostri clienti. Un buon modo per intrattenere i vostri clienti potrebbe essere quello di mostrare il “dietro le quinte” della vostra attività e/o fornire tutorial, informazioni extra e consigli utili.

Mettersi in gioco

Molti titolari di attività commerciali non si sono mai confrontati con questo tipo di comunicazione e si sentono in imbarazzo.
Ci sentiamo di rassicurarli: i vostri clienti sanno che di professione non fate gli “influencer” e vi apprezzano ancora di più per il fatto che vi mettiate in gioco. Il segreto è di comunicare con loro come se venissero a visitarvi nel vostro punto vendita, l’unica differenza sta nel mezzo attraverso cui lo fate.
In fondo oggi nascono frotte di influencer “costruiti” in ogni loro aspetto, ma ricordatevi che i primi influencer, e quelli che ancora oggi riscuotono più successo, hanno basato tutto sulla spontaneità, sulla naturalezza.
Il successo stesso stesso degli “influencer” nasce dalla volontà del pubblico di ascoltare una persona che comunica mettendosi al loro pari.
In conclusione, Messenger Rooms costituisce un’ottima opportunità per “gettare la maschera” del brand, mostrandosi in prima persona davanti ai consumatori.
Vuoi spunti su come utilizzare le Messenger Rooms per il tuo business?
Ti aiutiamo noi,
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COVID-19: ecco le 7 nuove Buyer Personas nate dall’emergenza

14 Maggio 2020

Come sappiamo, il COVID-19 ha cambiato profondamente la vita e le abitudini dei consumatori e, di conseguenza, le strategie di marketing.
In questa circostanza inusuale, è inevitabile che nascano nuove Buyer Personas, ovvero nuovi consumatori-tipo a cui fare riferimento per le nostre campagne pubblicitarie.
Scopriamo insieme i risultati di uno studio di GroupM volto a identificare le sette nuove Buyer Personas nate durante l’emergenza COVID-19.

COVID-19 e Buyer Personas

Possiamo dividere le sette nuove Buyer Personas in quattro macro-aree che classificano il tipo di reazione che queste categorie di consumatori manifestano di fronte all’emergenza COVID-19.

Avanguardia

La reazione che questo tipo di consumatori ha nei confronti dell’emergenza è decisamente ottimistica e può costituire il giusto veicolo per placare le preoccupazioni delle altre Personas.

  • I Communitarian

Sono 2,1 milioni, costituiscono il 5,2% degli utenti online. Si tratta degli esponenti più intraprendenti della Generazione X (i nati fra il 1965 e il 1979): si danno da fare per aiutare gli altri a fronteggiare la crisi; sono fiduciosi sul fatto che lo stato d’emergenza possa essere archiviato in tempi brevi e giudicano positivamente l’operato del Governo e delle istituzioni. Sono convinti che, in situazioni come queste, l’unione faccia la forza, e pensano già al ritorno alla normalità.
In virtù del loro ottimismo e del loro spirito pratico, sono restii a cadere vittima di allarmismi.
Questo è il target ideale delle comunicazioni valoriali che hanno letteralmente invaso i media negli ultimi mesi, che puntano sul valore della collettività e sul superamento della crisi.
Le aziende possono incanalare l’ottimismo e l’intraprendenza dei Communitarian in campagne volte a sfruttare contenuti prodotti dai consumatori, che diventano quindi “prosumer”.

Mainstream attivo

Questa macro-area include tre diverse Buyer Personas, che costituiscono in totale un pubblico di 15,4 milioni di italiani. Ognuna delle tre Personas affronta la situazione in modo diverso, ma il trait d’union sta nel fatto di affrontare la crisi attivamente, senza subirla.

  • I Calm Keeper

Sono 4,9 milioni, costituiscono il 11,9% degli utenti online. La loro priorità è quella di mantenere la calma e cercare di costruire una nuova normalità. Questa buyer persona mette al centro l’importanza di mantenere un proprio equilibrio psico-fisico.
Si tratta di Boomer e Senior con un alto livello d’istruzione, che vivono prevalentemente in provincia.
Hanno fiducia in una risoluzione rapida della crisi, ma sono pessimisti in merito alla situazione post-emergenza, anche in virtù dell’esperienza che deriva dalla loro età avanzata.
Si tratta di persone che, nel periodo di quarantena, hanno cominciato ad acquistare online, contribuendo a colmare il “digital gap” con le generazioni più giovani.
Anche loro sono insofferenti ai toni allarmistici della stampa, quindi la comunicazione migliore per raggiungerli risulta essere pacata e realistica, senza eccessi di ottimismo (positività), né di pessimismo (negatività).

  • I Committed

Sono 4,1 milioni, costituiscono il 10,1% degli utenti online. Questa buyer persona rappresenta i consumatori che, durante l’emergenza, non si sono mai fermati: si sono costantemente dati da fare per trovare nuove soluzioni per lavoro, studio e vita quotidiana, per sé e per gli altri.
Si tratta di giovani adulti (25-34 anni), soprattutto uomini con un livello socio-culturale alto, e abitano prevalentemente in grandi città.
Sono pieni di intraprendenza e di energia e sono la fascia che, più di tutte, ha saputo sfruttare gli strumenti digitali a proprio favore nel periodo di quarantena (smart working, e-learning, acquisti online, programmi di videochiamata e servizi di streaming).
Per comunicare con loro, utilizzare un tono di voce positivo e concreto, che punti su soluzioni pratiche per migliorare la vita quotidiana e per passare il tempo.

  • Gli Escapist

Sono 6,4 milioni, costituiscono il 15,6% degli utenti online. Sono caratterizzati dalla volontà di “evadere” con la mente dalla gravità della situazione d’emergenza. Hanno sfruttato, e sfruttano, il periodo di crisi per trovare tempo per sé stessi e approfondire i propri interessi e le proprie passioni, rifugiandosi in un mondo alternativo.
Costituiscono la fascia mediamente più giovane e, fra tutte le Buyer Personas, sono fra i meno preoccupati per l’emergenza da COVID-19, da cui cercano di estraniarsi.
Prima della crisi si ritrovavano spesso a mangiare fuori casa; durante il lockdown hanno fatto ampio utilizzo di cibo da asporto, ma hanno anche imparato a cucinare, usufruendo quindi anche di servizi di e-Grocery.
Sono i consumatori che, più di tutti, hanno usufruito e usufruiscono di servizi di streaming. Costituiscono il target ideale di influencer e youtuber.
Popolano Instagram e non disdegnano eventi digitali e videogiochi. Per comunicare in modo efficace con questi consumatori è necessario utilizzare un tono di voce leggero e puntare sull’intrattenimento.

Mainstream Passivo

Si tratta di consumatori che “subiscono” la crisi, mettendo al centro tutte le loro ansie e preoccupazioni.

  • I Protector

Sono 11,8 milioni e costituiscono il 28,8% degli utenti online. Questo tipo di consumatore è caratterizzato dalla volontà di “proteggere” sé stesso e i propri cari dal rischio sanitario costituito dalla pandemia di COVID-19.
Si tratta soprattutto di donne, di mezz’età e anziane, che abitano prevalentemente nei piccoli centri. Il loro livello di paura e preoccupazione è fra i più elevati e la loro prerogativa è quella di seguire tutte le precauzioni igieniche e sanitarie possibili per ridurre il rischio di contagio.
I Protector sono critici verso il Governo e le istituzioni e pessimisti in merito alla possibilità che la crisi venga risolta in tempi brevi.
Hanno incrementato l’acquisto di prodotti per la salute, la cura e il benessere personale, sia online che offline, e hanno preso d’assalto supermercati e negozi di alimentari. Costituiscono uno dei target più influenzati dall’infodemia e dalla comunicazione televisiva, volta all’allarmismo. Per raggiungere questo target, la comunicazione deve essere semplice, chiara e rassicurante e fornire informazioni utili a risolvere i loro problemi quotidiani.

  • I Defender

Sono 9,5 milioni e costituiscono il 23% degli utenti online. Questi consumatori sentono di dover difendere sé stessi e i propri cari da pericoli, reali e immaginari, di tipo sanitario, ma anche sociale ed economico.
Si tratta di adulti, con una grande percentuale di anziani, che abitano in grandi centri, prevalentemente nel Nord Italia.
Il loro livello di paura è il più elevato e credono che la crisi durerà ancora a lungo. Si tratta dei consumatori che, più di tutti, prendono d’assalto supermercati e negozi di alimentari, anche perché hanno ancora una scarsa propensione verso l’acquisto online.
Sono i consumatori più colpiti dall’infodemia, alimentata da un incremento nell’utilizzo dei social (soprattutto Facebook) e nella fruizione televisiva.
Anche in questo caso, la comunicazione adatta a questo gruppo di consumatori è semplice, rassicurante e concreta, volta alla risoluzione dei loro problemi quotidiani.

Zona Buia

Si tratta dei consumatori che hanno lasciato che la paura prendesse il sopravvento. Si sentono impotenti di fronte alla crisi e non hanno mezzi e risorse per sopravvivere.

  • I Surrender

Sono 2,2 milioni e costituiscono il 5,4% degli utenti online, ma tale stima costituisce solo la “punta dell’iceberg” rispetto agli oltre 10 milioni di italiani che, secondo dati ISTAT, vivono in condizioni di povertà tali da non poter usufruire di strumenti digitali, risultando quindi “digitalmente invisibili”.
Si tratta di adulti di età trasversale e soprattutto di sesso femminile, che abitano nelle medie città o nei piccoli centri.
Questi consumatori vivono la situazione con profondo pessimismo e non nutrono alcuna fiducia nel Governo e nelle istituzioni.
I Surrender reagiscono all’emergenza facendo scorta di beni di prima necessità e isolandosi dal resto del mondo. Non a caso, sono l’unica categoria di consumatori ad aver diminuito la fruizione di tutti i media. Per raggiungere questi consumatori è necessario utilizzare un tono rassicurante e puntare su offerte, promozioni e agevolazioni, magari in collaborazione con le istituzioni o con i grandi leader del mercato.

COVID-19: Scenario generale

A seguito della partenza della Fase 2 dell’emergenza COVID-19, si stima che le categorie più inclini a crescere nel breve periodo siano quella dei Protector, intenzionati a mantenere le abitudini assunte durante il lockdown, e quella dei Calm Keeper, in cerca di un nuovo equilibrio. Per ogni azienda è fondamentale, come abbiamo già evidenziato, rispondere all’incremento degli acquisti online, non solo nel settore Food o dei beni di prima necessità. Inoltre, secondo una ricerca di GFK, cresce l’attenzione degli italiani per la cura personale e per la salute e il benessere, anche in cucina, e resiste la voglia di vacanza, vista come “ricompensa”. Una ricerca di Havas Media testimonia inoltre un aumento degli acquisti presso i negozi di quartiere: quasi il 35% degli intervistati afferma di acquistare da loro, anche al fine di sostenerli.
La ricerca evidenzia anche un rinnovato interesse nei confronti del Made in Italy: il 61% degli intervistati dichiara di voler acquistare prodotti italiani.
Infine, è interessante notare come gli italiani abbiano espresso il desiderio di riuscire a conservare alcune delle abitudini acquisite durante il lockdown, in particolare il tempo dedicato agli affetti e alla cucina.
Federica Setti, Chief Research Officer di GroupM Italia, spiega che i prossimi mesi saranno fondamentali per capire se le nuove abitudini degli italiani sopravviveranno anche oltre il periodo di emergenza, ribadendo inoltre l’importanza dell’advertising: “Nonostante il momento che stiamo vivendo, la maggior parte della popolazione continua a chiedere di non fermare la comunicazione commerciale. Questo dipende dalle funzioni fondamentali della comunicazione: identificazione e orientamento, delle quali le persone oggi hanno più che mai bisogno”.

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