Si odia o si ama era il claim di una serie di spot di Superga che invasero la televisione italiana a metà degli anni ’90, segnando una generazione.
La campagna, ad opera dell’agenzia Lowe Lintas Pirella Göettsche, mirava a riportare in auge lo storico marchio torinese di scarpe da ginnastica per mezzo di una serie di spot di appena un minuto, girati in bianco e nero.
Noi vogliamo soffermarci su uno di questi, diretto da Tarsem Singh.
Si odia o si ama, il celebre spot del 1996
Un uomo in giacca e cravatta, presumibilmente un “pezzo grosso” di qualche azienda, siede sul sedile posteriore di un’auto di lusso, mentre fuori imperversa il caos: un gruppo di uomini che indossano inquietanti maschere animalesche stanno manifestando, bloccando la strada. La protesta sfocia in una furibonda guerriglia urbana e le forze dell’ordine rispondono con percosse, fumogeni e colpi di manganello. Ad un certo punto, sul cofano dell’automobile del ricco signore si abbatte un rimostrante con una maschera da coniglio.
I due si guardano negli occhi per qualche istante, poi un agente afferra il manifestante che, nel tentare la fuga, perde una scarpa, una Superga.
Con uno stacco ci ritroviamo a casa dell’uomo, siamo nel pieno della più classica cena in famiglia. Il figlio maggiore, mentre bacia la madre, spinge intenzionalmente a terra il quotidiano poggiato sulla tavola. Il padre si china a raccoglierlo, notando che alla figlia manca una delle due Superga.
Lui guarda lei, lei ricambia lo sguardo con occhi carichi di sfida.
Appaiono marchio e payoff: Superga. Si odia. O si ama.
Cosa ci insegna lo spot di Superga
Cos’ha da insegnarci questo spot, a 25 anni dalla sua uscita?
Tante cose, ma soprattutto l’importanza di prendere una posizione, per i consumatori e, di conseguenza, per i brand.
Come recita il payoff, Superga non ammette vie di mezzo: o si ama o si odia.
Allo stesso modo, lo spettatore può provare amore per uno dei due personaggi e, di conseguenza, odio per l’altro.
Prendendo in prestito due celebri archetipi narrativi, possiamo parlare dell’eroe e della sua ombra: sono figure strettamente legate in quanto l’una è la proiezione positiva o negativa dell’altra.
Ecco, quindi, che si delineano due possibili interpretazioni:
L’eroe è la ragazza che protesta per quella che immaginiamo essere una buona causa, mentre il padre è l’ombra (forse è proprio contro la sua azienda che lei stava protestando?).
L’eroe è il padre, un industriale che compie il proprio dovere ogni giorno, mentre l’ombra è la figlia, che protesta alle sue spalle.
L’ambiguità della rappresentazione lascia carta bianca allo spettatore. La forza evocativa dello spot, che è perfino andato incontro a censure (la Rai si è rifiutata di trasmetterlo), sta proprio nel fatto di mettere in scena una contrapposizione nella quale il pubblico può riconoscersi, parteggiando per il padre o per la figlia.
Ma la rivoluzione più grande sta nel fatto che anche lo stesso marchio prende una posizione: tornando alla dimensione narrativa, la perdita della scarpa, come nella celebre fiaba di Cenerentola, simboleggia una prova affrontata, identificando la ragazza come unico vero eroe agli occhi del brand.
In questa cornice, Superga diventa quindi un simbolo di ribellione, trasgressione, anticonformismo.
La contrapposizione messa in scena dallo spot può assumere diverse valenze: si tratta di uno scontro fra classi sociali e stili di vita, ma anche fra diverse generazioni. A risultare particolarmente pregnante è stato proprio quest’ultimo aspetto, accentuato dalle note distorte di Firestarter, hit dei Prodigy che stava spopolando fra i teenager di tutta Europa, diventando una proiezione delle loro inquietudini adolescenziali.
Nello spot, la colonna sonora partecipa alla narrazione in modo complementare, totale: quelle sonorità così estreme e ansiogene riecheggiavano nelle case degli italiani come unghie che stridono sulla lavagna, aderendo perfettamente alle immagini mostrate.
Cosa possiamo imparare da questo spot, quindi?
Partiamo da un assunto: come brand sappiamo di non poter “piacere” a tutti, ma spesso dimentichiamo che non abbiamo bisogno di “piacere” a tutti, anzi.
Più ci distinguiamo, senza paura di alienare una fetta di pubblico, e più il messaggio risulta forte e convincente per i nostri consumatori, quelli a cui davvero piacciamo.
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