Stop Hate For Profit è l’iniziativa a cui hanno aderito più di 400 aziende che hanno detto “Stop!” alla pubblicità su Facebook per tutto il mese di luglio.
Il motivo?
La piattaforma social non farebbe abbastanza per contrastare i messaggi di odio razziale alla luce dei recenti avvenimenti legati al movimento Black Lives Matter.
Tutto è iniziato con il rifiuto di Facebook di eliminare un post del presidente Donald Trump sulle proteste di Minneapolis, già “censurato” da Twitter, a cui è seguito il boicottaggio dei brand, che richiedono alla piattaforma un maggiore impegno e una maggiore responsabilità nella revisione dei propri contenuti per prevenire violenza e disinformazione.
A partecipare sono i brand più svariati: Coca Cola (che ha deciso di sospendere la pubblicità su tutte le piattaforme digitali), Starbucks (che rinuncia a tutti i social tranne che a YouTube), Honda, Adidas, Colgate-Palmolive, Ford, Levi’s, Mozilla, Puma, Reebok e molti altri, coinvolti in un boicottaggio che si incentra principalmente su Facebook.
Stop alla pubblicità: gli effetti del boicottaggio su Facebook
Il giro d’affari annuo di Facebook si aggira attorno ai 70 miliardi (circa un quinto del mercato globale dell’advertisement): il 99% di questi deriva dagli investimenti delle aziende in pubblicità.
In borsa, il titolo di Facebook ha perso circa l’8% solo a fronte dell’annuncio della campagna Stop Hate For Profit, con una perdita di miliardi di dollari in poche ore.
La risposta del colosso dei social non si è fatta attendere: Zuckerberg ha dichiarato che Facebook etichetterà i post dei politici qualora essi presentino contenuti falsi, discriminatori o fuorvianti, ma senza eliminarli.
Questo, secondo Zuckerberg, sarebbe nell’interesse dei cittadini, che devono essere a conoscenza – nel bene e nel male – di ciò che afferma il proprio leader in quanto si tratta di contenuti “news-worthy”, degni di nota per la stampa e per il dibattito pubblico.
Inoltre Nick Clegg, vice Presidente Global Affairs & Communications di Facebook, dichiara: “Il modo migliore per contrastare i discorsi offensivi, divisori e ingiuriosi, è quello di parlarne. Esporli alla luce del sole è meglio che nasconderli nell’ombra”.
Come fa notare il Financial Times, l’interesse economico è comunque preponderante: “I post divisivi hanno più probabilità di diventare virali – più clic un post genera, più Facebook guadagna”.
La società ha comunque voluto ribadire il suo impegno in merito, dagli investimenti per la sicurezza al lavoro di revisione e aggiornamento delle policy, ricordando di aver “ bandito 250 organizzazioni della supremazia bianca da Facebook e Instagram”, pur ammettendo di avere “ancora molto lavoro da fare” in collaborazione con i gruppi per i diritti civili, il Garm e altri soggetti.
Lotta al razzismo o mossa di marketing?
Al numero 183 nella lista delle 200 “armi di marketing” enumerate da Jay Conrad Levinson, padre del Guerrilla Marketing, c’è “Noble Cause”, che fa riferimento all’adottare una nobile causa, un impegno sociale.
Se l’advertisement a pagamento genera lead e fatturato, aderire ad una nobile causa garantisce un diverso posizionamento nella percezione del brand, e quindi della sua identità: in poche parole, anche questo è marketing.
E, in un periodo caratterizzato dalle proteste sociali, non allinearsi alla causa potrebbe portare a gravi problemi di reputazione per un brand.
Un’inchiesta di Shoshana Wodinsky per Gizmodo rivela tuttavia che, fra le prime aziende che hanno aderito al movimento, nessuna ha eliminato il 100% degli investimenti pubblicitari sulle piattaforme di proprietà di Zuckerberg.
Alcune hanno messo in pausa i post sponsorizzati su Facebook, ma non su Instagram. Altre hanno interrotto le campagne su Facebook e su Instagram, ma continuando a promuoversi attraverso Facebook Audience Network, che permette inserzioni mirate verso gli utenti di Facebook che utilizzano altre app o visitano altri siti web.
Molte altre aziende hanno sospeso le sponsorizzazioni negli Stati Uniti, principale sede delle proteste, ma non nel resto del mondo.
Un articolo de Il Fatto Quotidiano fa invece notare come quest’iniziativa permetta alle aziende di appoggiare una campagna che gli garantisce una buona visibilità e reputazione, facendosi pubblicità a costo zero in un periodo in cui, comunque, “erano già stati decisi tagli sugli investimenti” a causa dell’emergenza.
Il quotidiano elenca poi i nomi dei principali brand coinvolti, fra cui molte imprese in crisi a causa della situazione vissuta negli scorsi mesi: le azioni di Ford, colpita dal crollo del mercato globale dell’auto, valgono un terzo in meno rispetto a febbraio; Unilever “aveva annunciato il blocco di tutte le nuove principali produzioni pubblicitarie in cantiere già a inizio marzo”, mentre Adidas nel primo trimestre ha perso il 96% del suo utile e via dicendo.
Aziende come Netflix, invece, in perfetta salute post-lockdown, se ne sono guardate bene dal boicottare Facebook.
Secondo questo punto di vista, l’iniziativa sarebbe quindi l’ennesima strumentalizzazione di temi sociali a fini economici.
Tuttavia, se la campagna potrà effettivamente garantire un maggior controllo dei contenuti da parte di Facebook, questo costituirà una vittoria per tutti.
A parte, forse, per lo stesso Facebook…
I danni per Facebook nel lungo periodo
Il boicottaggio di massa ai danni di Facebook durerà, al momento, solo un mese; ad estendere l’iniziativa sino a fine anno (complici anche le elezioni di novembre negli USA) è solo un numero selezionato di brand, ad esempio Unilever.
Cosa succederà, quindi, dopo luglio?
L’aspetto temporaneo della protesta dimostra che nessuno dei soggetti aderenti è sicuro degli effetti che questo boicottaggio comporterà. La prospettiva peggiore, dal punto di vista di Facebook, è che molte aziende possano rendersi conto di poter effettivamente fare a meno dell’adv sulla piattaforma.
Veronica Gentili, specializzata in Facebook Marketing, ci tiene a sdrammatizzare la situazione del colosso social: “Ogni anno c’è un boicottaggio nei confronti di Facebook. Nel 2017 grossi brand hanno detto che non avrebbero fatto più pubblicità su Youtube perché alcune delle loro pubblicità erano state inserite accanto a contenuti razzisti e omofobici. Siamo nel 2020 e questa cosa sembra essere dimenticata”.
Inoltre, il grosso dei guadagni di Facebook deriva da piccole e medie imprese, che potrebbero non trovare altrettanto conveniente rinunciare alle sponsorizzazioni.
Insomma: per Facebook, e per le aziende, questa è una partita ancora tutta da giocare.