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La crisi di Facebook: cosa succede al social di Zuckerberg?

14 Febbraio 2022

In questi giorni sembra che il colosso social di Mark Zuckerberg sia in piena crisi: prima la notizia del crollo in borsa, poi addirittura la prospettiva di chiudere le proprie piattaforme in Europa.
Cosa sta succedendo esattamente? Facciamo il punto della situazione.

Calo di utenza: concorrenza e questioni etiche

È la prima volta, dalla nascita di Facebook nel 2004, che il numero di utenti sulla piattaforma diminuisce anziché aumentare. Si tratta di una perdita di circa un miliardo di utenti fra quelli attivi giornalmente: un dato che sembrerebbe riguardare principalmente il Nord America, da cui proviene la maggior parte degli introiti pubblicitari della compagnia.
Per questi motivi, il calo ha avuto un impatto molto forte in borsa: il titolo azionario ha perso più del 20 per cento del suo valore di mercato alla Borsa di Wall Street, corrispondente a più di 200 miliardi di dollari.

Quella di Zuckerberg resta un’azienda di incredibile successo, con 40 miliardi di dollari di profitto solo l’anno scorso, ma il trading in borsa non può essere redditizio senza una crescita. Il modello è maturo e il mercato è saturo, avendo perso di attrattiva negli USA, in Europa e perfino nel resto del mondo (che finora aveva offerto prospettive di crescita), quindi il suo valore azionario cala.

Nel comunicato stampa che accompagna la notizia, Zuckerberg ha individuato la causa del crollo non solo nella crisi della supply chain e nell’aumento dell’inflazione, ma anche nella concorrenza da parte di altre piattaforme, in particolare TikTok, social prediletto dei teenager, target per cui Facebook non risulta adatto – non solo per il fatto di non essere riuscito ad adattarsi con successo al format degli short video, ma anche a livello etico. Stiamo parlando dei Facebook Papers: a ottobre dello scorso anno, su internet sono trapelati alcuni documenti interni della società che dimostrano come questa fosse consapevole degli effetti dannosi delle proprie piattaforme sulla salute degli adolescenti, soprattutto delle ragazze, a cui potrebbe causare depressione, ansia e calo di autostima. È stato in questo momento che l’azienda dietro a Facebook e Instagram ha optato per un rapido rebranding, rinominandosi “Meta”: la scelta è stata vista come un goffo tentativo di scrollarsi di dosso la responsabilità dell’accaduto, gettando fumo negli occhi a utenti e investitori con un nome che facesse riferimento al metaverso, la realtà virtuale su cui Zuckerberg afferma di voler puntare sempre di più.
È proprio a seguito di questo scandalo che il brand Lush ha abbandonato per la seconda volta (e in modo permanente, sembrerebbe) le piattaforme social, perdendo svariati milioni di dollari in virtù dell’etica e del rispetto per il proprio target: si tratta di una scelta che non tutti i marchi possono permettersi di compiere, ma il calo di utenti registrato da Zuckerberg può essere un segnale positivo verso la costruzione di un ambiente virtuale più sano per tutti.

Questioni di privacy

Fra le cause della crisi, Zuckerberg cita anche la modifica delle regole della privacy da parte di Apple lo scorso aprile, che rendono più difficile il tracciamento degli utenti che utilizzano iPhone, e dunque la possibilità di mostrare loro annunci pubblicitari personalizzati. Apple ha infatti introdotto l’aggiornamento “Trasparenza del monitoraggio delle app” e molti utenti hanno disabilitato il tracking relativo a Facebook, spingendo gli inserzionisti a privilegiare altre piattaforme, come Google.

A questo si aggiunge la recentissima conference call durante la quale l’azienda di Zuckerberg ha dichiarato che potrebbe presto essere costretta a chiudere Instagram e Facebook in Europa, qualora il nostro continente non dovesse adottare un nuovo quadro normativo in materia di trasferimento dei dati.

Fondamentalmente, “se non siamo in grado di trasferire dati tra paesi e regioni in cui operiamo, o se ci è vietato condividere dati tra i nostri prodotti e servizi, potremmo non essere più in grado di offrire servizi o di indirizzare gli annunci”, dichiara l’azienda, che si dice fiduciosa in merito ad un possibile accordo con le autorità nel corso del 2022.

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Social Media Marketing: conosci la tua audience

5 Ottobre 2021

Meglio pochi social, ma buoni. È diventato un luogo comune al pari de “Non esistono più le mezze stagioni”, ma – proprio per questo – è sempre valido e si basa su un solido fondo di verità: un brand non deve per forza essere presente su tutti i social network, soprattutto se non comprende le particolarità di ogni piattaforma e si limita a fare uno sterile copia-incolla di contenuti, come se Facebook fosse uguale a Twitter e via dicendo.

Per capire dove conviene essere presenti, bisogna conoscere i social, ma soprattutto chi li popola. Scopriamo insieme qual è il pubblico di riferimento dei 5 social più conosciuti!

Facebook

Nonostante qualche acciacco dovuto all’età, Facebook rimane il social network numero uno per numero di iscritti, con 2.7 miliardi di utenti mensili attivi a livello globale.
A differenza di quanto si pensa, Facebook non è l’equivalente di un ospizio “social”: la fascia d’età più coinvolta nel suo utilizzo è quella 25-34 anni, seguita da 18-24. Non è quindi propriamente vero il pensiero che Facebook abbia un pubblico più “avanti con l’età”.
In effetti, fra i social network analizzati, Facebook ha il target più trasversale a livello d’età (18-49 anni), coprendo ben tre generazioni (Generazione X, Millennials, Generazione Z). La sua audience è eterogenea anche per quanto riguarda generi sessuali, classi sociali e background scolastici e professionali.

Per questo motivo, Facebook si presta bene a qualunque tipo di business, dal negozio di quartiere alla multinazionale.
Le aziende possono sfruttare la piattaforma per comunicare in modo più diretto e “personale” con il proprio pubblico: infatti, Facebook è l’ideale per mantenere i contatti con il proprio “zoccolo duro” di clienti. Può essere più complesso, invece, raggiungerne di nuovi: i post di Facebook hanno generalmente un reach limitato, ed è difficile farsi notare in mezzo ad una valanga di altri contenuti pubblicati non solo da altre aziende di ogni tipo, ma anche da amici, familiari e conoscenti del potenziale cliente.

Instagram

Instagram è utilizzato principalmente da un pubblico di giovani adulti.
Il 90% degli utenti ha meno di 35 anni; la fascia d’età principale è quella dai 18 ai 29 anni, in prevalenza femminile. Su Instagram, come su TikTok e su Twitter, gli utenti sono più propensi a seguire persone che non conoscono di persona rispetto a Facebook: il feed si popola dunque di contenuti pubblicati da influencer e altri profili ritenuti interessanti.

Incentrandosi principalmente sulla componente visuale, Instagram è l’ideale per business che hanno a che fare con arte, ristorazione, viaggi, makeup e moda. Rispetto a Facebook, è più semplice ottenere nuovi follower in modo organico, anche grazie all’utilizzo di hashtag specifici.

TikTok

Come Instagram, TikTok è completamente volto all’aspetto visuale: in questo caso si tratta di brevissimi video, non di foto. L’audience è la più giovane fra tutti i social analizzati, dato che interessa soprattutto la fascia 16-24. I brand hanno cominciato ad essere presenti su TikTok solo da un paio d’anni: per produrre un contenuto che funzioni, occorre adottare una mentalità che si avvicini a quella dei creator digitali, cercando di “mimetizzarsi” fra gli influencer della piattaforma. Per questo motivo, spesso i brand collaborano con i “tiktoker” stessi.

LinkedIn

Avendo strettamente a che fare con il mondo del lavoro, non sorprende che LinkedIn abbia un pubblico adulto e professionalmente attivo: la fascia più presente è quella fra i 30 e i 49 anni, seguita da quella fra i 50 e i 64. Gli uomini sono in leggera maggioranza rispetto alle donne.

La piattaforma è l’ideale per generare nuovi contatti e condividere conoscenze all’interno del proprio settore di riferimento: per questo motivo, LinkedIn è il social più utilizzato in ambito industriale e B2B.
La natura della piattaforma permette alle aziende di agire all’interno della propria nicchia di business: la comunicazione risulta quindi meno “dispersiva” rispetto agli altri social analizzati, Facebook in primis.
I contenuti – soprattutto quelli di natura testuale – possono essere più approfonditi e specifici rispetto alla media delle altre piattaforme prese in considerazione.

Twitter

Twitter ha meno iscritti rispetto a Facebook e Instagram, ma conserva nicchie di “affezionati” che lo utilizzano con frequenza da oltre 10 anni.
Il target è mediamente giovane (under 30), con un grado d’istruzione più elevato rispetto a Facebook e Instagram.
Gli uomini sono in leggera maggioranza rispetto alle donne.

La comunicazione avviene prevalentemente fra persone che non si conoscono di persona. Gli utenti si esprimono su eventi in tempo reale, dai programmi televisivi all’attualità, con un particolare interesse per politica e temi sociali.
Twitter è il social su cui più facilmente si può subire una “gogna mediatica” a seguito di affermazioni controverse: gli utenti della piattaforma, infatti, sono particolarmente attenti, veloci e propensi a condannare un personaggio pubblico per una dichiarazione di natura razzista e/o sessista. Spesso è proprio Twitter a dare il via a scandali di questo tipo, che poi fanno il giro di tutti i social. La piattaforma è anche il luogo ideale in cui dare spazio all’arguzia: alcuni fra i contenuti più retwittati – e ricondivisi, sotto forma di screenshot, su altre piattaforme – sono di natura umoristica, spesso con una vena caustica, accentuata dall’esiguo numero di caratteri a disposizione.

Per un brand, quindi, Twitter costituisce un’occasione per esprimersi direttamente su eventi “in real time” e su argomenti in trending topic: si può scherzare, ma stando bene attenti a quello che si dice. Particolarmente importante è l’interazione con gli utenti, che rende Twitter uno dei social più utilizzati per il customer service dalle grandi aziende.

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Filed Under: Facebook, Linkedin, Social Media, Twitter

Stop alla pubblicità su Facebook, il boicottaggio delle aziende

9 Luglio 2020

Stop Hate For Profit è l’iniziativa a cui hanno aderito più di 400 aziende che hanno detto “Stop!” alla pubblicità su Facebook per tutto il mese di luglio.

Il motivo?
La piattaforma social non farebbe abbastanza per contrastare i messaggi di odio razziale alla luce dei recenti avvenimenti legati al movimento Black Lives Matter.

Tutto è iniziato con il rifiuto di Facebook di eliminare un post del presidente Donald Trump sulle proteste di Minneapolis, già “censurato” da Twitter, a cui è seguito il boicottaggio dei brand, che richiedono alla piattaforma un maggiore impegno e una maggiore responsabilità nella revisione dei propri contenuti per prevenire violenza e disinformazione.

A partecipare sono i brand più svariati: Coca Cola (che ha deciso di sospendere la pubblicità su tutte le piattaforme digitali), Starbucks (che rinuncia a tutti i social tranne che a YouTube), Honda, Adidas, Colgate-Palmolive, Ford, Levi’s, Mozilla, Puma, Reebok e molti altri, coinvolti in un boicottaggio che si incentra principalmente su Facebook.

Stop alla pubblicità: gli effetti del boicottaggio su Facebook

Il giro d’affari annuo di Facebook si aggira attorno ai 70 miliardi (circa un quinto del mercato globale dell’advertisement): il 99% di questi deriva dagli investimenti delle aziende in pubblicità.
In borsa, il titolo di Facebook ha perso circa l’8% solo a fronte dell’annuncio della campagna Stop Hate For Profit, con una perdita di miliardi di dollari in poche ore.

La risposta del colosso dei social non si è fatta attendere: Zuckerberg ha dichiarato che Facebook etichetterà i post dei politici qualora essi presentino contenuti falsi, discriminatori o fuorvianti, ma senza eliminarli.

Questo, secondo Zuckerberg, sarebbe nell’interesse dei cittadini, che devono essere a conoscenza – nel bene e nel male – di ciò che afferma il proprio leader in quanto si tratta di contenuti “news-worthy”, degni di nota per la stampa e per il dibattito pubblico.
Inoltre Nick Clegg, vice Presidente Global Affairs & Communications di Facebook, dichiara: “Il modo migliore per contrastare i discorsi offensivi, divisori e ingiuriosi, è quello di parlarne. Esporli alla luce del sole è meglio che nasconderli nell’ombra”.
Come fa notare il Financial Times, l’interesse economico è comunque preponderante: “I post divisivi hanno più probabilità di diventare virali – più clic un post genera, più Facebook guadagna”.

La società ha comunque voluto ribadire il suo impegno in merito, dagli investimenti per la sicurezza al lavoro di revisione e aggiornamento delle policy, ricordando di aver “ bandito 250 organizzazioni della supremazia bianca da Facebook e Instagram”, pur ammettendo di avere “ancora molto lavoro da fare” in collaborazione con i gruppi per i diritti civili, il Garm e altri soggetti.

Lotta al razzismo o mossa di marketing?

Al numero 183 nella lista delle 200 “armi di marketing” enumerate da Jay Conrad Levinson, padre del Guerrilla Marketing, c’è “Noble Cause”, che fa riferimento all’adottare una nobile causa, un impegno sociale.

Se l’advertisement a pagamento genera lead e fatturato, aderire ad una nobile causa garantisce un diverso posizionamento nella percezione del brand, e quindi della sua identità: in poche parole, anche questo è marketing.
E, in un periodo caratterizzato dalle proteste sociali, non allinearsi alla causa potrebbe portare a gravi problemi di reputazione per un brand.

Un’inchiesta di Shoshana Wodinsky per Gizmodo rivela tuttavia che, fra le prime aziende che hanno aderito al movimento, nessuna ha eliminato il 100% degli investimenti pubblicitari sulle piattaforme di proprietà di Zuckerberg.
Alcune hanno messo in pausa i post sponsorizzati su Facebook, ma non su Instagram. Altre hanno interrotto le campagne su Facebook e su Instagram, ma continuando a promuoversi attraverso Facebook Audience Network, che permette inserzioni mirate verso gli utenti di Facebook che utilizzano altre app o visitano altri siti web.
Molte altre aziende hanno sospeso le sponsorizzazioni negli Stati Uniti, principale sede delle proteste, ma non nel resto del mondo.

Un articolo de Il Fatto Quotidiano fa invece notare come quest’iniziativa permetta alle aziende di appoggiare una campagna che gli garantisce una buona visibilità e reputazione, facendosi pubblicità a costo zero in un periodo in cui, comunque, “erano già stati decisi tagli sugli investimenti” a causa dell’emergenza.
Il quotidiano elenca poi i nomi dei principali brand coinvolti, fra cui molte imprese in crisi a causa della situazione vissuta negli scorsi mesi: le azioni di Ford, colpita dal crollo del mercato globale dell’auto, valgono un terzo in meno rispetto a febbraio; Unilever “aveva annunciato il blocco di tutte le nuove principali produzioni pubblicitarie in cantiere già a inizio marzo”, mentre Adidas nel primo trimestre ha perso il 96% del suo utile e via dicendo.
Aziende come Netflix, invece, in perfetta salute post-lockdown, se ne sono guardate bene dal boicottare Facebook.

Secondo questo punto di vista, l’iniziativa sarebbe quindi l’ennesima strumentalizzazione di temi sociali a fini economici.

Tuttavia, se la campagna potrà effettivamente garantire un maggior controllo dei contenuti da parte di Facebook, questo costituirà una vittoria per tutti.
A parte, forse, per lo stesso Facebook…

I danni per Facebook nel lungo periodo

Il boicottaggio di massa ai danni di Facebook durerà, al momento, solo un mese; ad estendere l’iniziativa sino a fine anno (complici anche le elezioni di novembre negli USA) è solo un numero selezionato di brand, ad esempio Unilever.

Cosa succederà, quindi, dopo luglio?
L’aspetto temporaneo della protesta dimostra che nessuno dei soggetti aderenti è sicuro degli effetti che questo boicottaggio comporterà. La prospettiva peggiore, dal punto di vista di Facebook, è che molte aziende possano rendersi conto di poter effettivamente fare a meno dell’adv sulla piattaforma.

Veronica Gentili, specializzata in Facebook Marketing, ci tiene a sdrammatizzare la situazione del colosso social: “Ogni anno c’è un boicottaggio nei confronti di Facebook. Nel 2017 grossi brand hanno detto che non avrebbero fatto più pubblicità su Youtube perché alcune delle loro pubblicità erano state inserite accanto a contenuti razzisti e omofobici. Siamo nel 2020 e questa cosa sembra essere dimenticata”.

Inoltre, il grosso dei guadagni di Facebook deriva da piccole e medie imprese, che potrebbero non trovare altrettanto conveniente rinunciare alle sponsorizzazioni.
Insomma: per Facebook, e per le aziende, questa è una partita ancora tutta da giocare.

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Filed Under: Facebook

Facebook e il cattivo rapporto degli algoritmi con il nudo artistico

11 Settembre 2019

Facebook strikes again. Sì, lo ha rifatto.
Prima c’è stato Rubens, e ora – al centro delle polemiche – troviamo un’opera di Natalia Goncharova: insomma, sembra proprio che il rapporto tra il social del pollicione blu e i nudi d’arte non sia idilliaco. Già, perché, a poco più di un anno dal caso di censura di un nudo del pittore archetipo del barocco – a cui è seguita una campagna di denuncia davvero spettacolare, di cui abbiamo parlato in questo post – ci risiamo: pochi giorni fa, infatti, Facebook ha censurato la campagna advertising che Palazzo Strozzi, a Firenze, ha attivato per promuovere la mostra dell’artista russa.

Quando Facebook censura i nudi artistici

Il problema, storicamente reiterato, sembrerebbe, per il social di Menlo Park, l’incapacità di monitorare umanamente i contenuti, andando oltre quindi gli algoritmi e le sequenze, per valutare quando un contenuto sia realmente “offensivo”, o quando si tratta, invece, di pura arte.
Il tutto nonostante le dichiarazioni, dello scorso settembre 2018, in cui sembrava che Facebook aprisse uno spiraglio di dialogo e fosse disposto a modificare l’algoritmo che tanto penalizza il nudo artistico, dopo un incontro avvenuto proprio nella Casa-Museo Rubenshuis di Anversa.

Il caso della Donna Vitruviana e dell’associazione Luca Coscioni

E così, anche l’associazione che si batte per la legalità dell’eutanasia e della scelta di fine vita ha avuto problemi con Facebook, vedendosi censurata la sua “Donna Vitruviana”, simbolo del convegno tenutosi a Milano lo scorso ottobre 2018 e simboleggiante – in pieno stile cartoon – una donna e la moltitudine di compiti che le spettano sotto forma del celebre disegno di Leonardo. La risposta di Avy Candeli, direttore creativo dell’Associazione, non si è fatta attendere:

“L’intelligenza artificiale potrà ottimizzare la vita umana, ma è incredibile come possa complicare in “autonomia” la creatività umana. Pur citando esplicitamente un’opera di Leonardo da Vinci con un uomo nudo, conoscendo le linee guida di Facebook ci eravamo posti il problema di non rappresentare la nostra donna ‘libera’ altrettanto nuda, e avevamo deciso di ‘censurarla’ coprendole ogni elemento ‘anche’ sessuale, sentendoci già censori”.

Facebook e la censura: ma come funziona?

Chi avrebbe mai pensato, all’interno del team di comunicazione, come quello dell’Associazione o, più recentemente, di Palazzo Strozzi, che un’immagine di un nudo astratto avrebbe sollevato le pudicizie del social, e proprio in una campagna a pagamento Eppure, ad aprile 2018, Facebook ha pubblicato una dettagliatissima lista di norme e linee guida sulla censura, i cosiddetti “community standards”, passati abbastanza inosservati. In particolare, il punto che ci interessa è proprio quello dei “contenuti deplorevoli”, in cui vengono raggruppati:

  • incitazioni all’odio razziale;
  • contenuti visivi violenti;
  • nudo e pornografia;
  • contenuti che esprimono insensibilità.

E, proprio nei contenuti di nudo sono incluse anche le opere d’arte che possiedono un eccessivo (ovviamente a seconda del gusto e della moralità del social blu) realismo figurativo, siano sculture antiche o immagini artistiche contemporanee.

Beh, c’è poco da dire, quando si parla di algoritmi: se Facebook non distingue tra arte e pornografia, erano questi i termini con cui è stata condotta la battaglia contro il social da parte dell’Ente del Turismo delle Fiandre, la colpa è proprio loro. E, con ogni probabilità, inserire un capitale più umano nel mondo numerico dell’algoritmo potrebbe evitare a Zuckerberg e alla sua società queste piccole cadute di stile nei confronti del patrimonio artistico mondiale.

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Filed Under: Facebook, Social Media

Facebook e Instagram: gli Insights che migliorano la comunicazione

19 Novembre 2018

I social network, con il corso degli anni, sono diventati tra i più efficaci strumenti comunicativi per la promozione di brand, prodotti e personalità. E, appunto, proprio per l’importanza che questi veri e propri sistemi di push hanno assunto nel tempo, sono stati creati strumenti di misurazione delle performances facili e alla portata di tutti che svelano – come la cartina di tornasole – l’effetto che contenuti, post, immagini e video hanno sul pubblico; così come il pubblico interagisca con essi, con la finalità è quella di creare strategie circolari di comunicazione.

Ma come funzionano? Vediamolo insieme!

Facebook: Audience Insights

Usare gli Audience Insights: che sia una programmazione a livello advertising, oppure una pagina che ancora si alimenta di una crescita organica, i dati insight e audience insight (basati quindi sulle persone che interagiscono con le nostre pagine) sono essenziali.
E lo sono perché permettono di ottenere informazioni aggregate su ben tre tipologie di persone: quelle connesse alla tua pagina, con il famoso like, le persone presenti nel tuo pubblico personalizzato e le persone in generale su Facebook. Grazie infatti a questa suddivisione puoi creare contenuti interessanti, trovando un numero maggiore di persone in target a quelle che fanno già parte della tua audience.

Luci puntate, poi, sui dati demografici, che si suddividono per età e genere, livello di istruzione, titoli professionali, situazione sentimentale, lavoro, interessi e hobby delle persone.
Non solo però: anche le azioni vengono indicate. E, con azioni, si intendono informazioni di terzi sui prodotti relativi alle persone: un dato fondamentale per comprendere necessità e interessi potenziali ad acquisti, così come gli stili di vita e le celebrazioni: Audience Insights, infatti, combina i dati sulla situazione sentimentale, le dimensioni della famiglia, il luogo – di lavoro e di vita – fino al compleanno!
Per saperne di più, Facebook ha pubblicato la guida completa – e ufficiale – a  questo link!

Instagram

Anche Instagram utilizza una carrellata di strumenti di insights davvero ampie e variegate: perché anche su questo social, property Facebook da ormai tre anni,  la crescita dell’engagement è strettamente correlata proprio all’analisi dei dati.
Facebook Insights è uno strumento introdotto nel 2016 e nato con l’obiettivo di aiutare i profili aziendali a saperne di più sull’engagement dei contenuti. E, proprio come accade per il fratello maggiore Facebook, gli Instagram Insight ci dicono di più più circa le abitudini di follower e target, facendo il punto su quali possano essere poi i contenuti migliori da proporre per il target del brand.

La funzione Instagram Insight, però, non è disponibile per i singoli profili, ma viene messa a disposizione solo per profili aziendali. Non solo: è necessario il collegamento con una pagina Facebook. Un beneficio, questo, che permette però di incrociare i dati dei singoli social e creare sponsorizzazioni intersecate. Con Instagram Insight puoi fare un check su impression (il numero totale delle visualizzazioni); sulla copertura (il numero totale di visualizzazioni); il numero degli accessi unici fatti da chi ha visualizzato i tuoi post e stories, fino alle performance dei singoli contenuti.

E… le storie?

Entrambi i social danno la possibilità di creare le storie (contenuti temporanei visibili per 24 ore e che attingono a foto e video delle 24 ore precedenti, personalizzabili): come possiamo però visualizzare le performances delle stories?

Quindi, oltre a impression e copertura, le storie prevedono anche i seguenti parametri:

  • Forward: chi ha proseguito nel guardare la storia.
  • Back: “indietro”, il numero di tocchi nelle parti precedenti della storia; risposte e interazioni, fino alle uscite.
  • Risposte: il numero di risposte a questa foto o questo video nella tua storia.

Con questa piccola guida introduttiva, abbiamo voluto darti gli strumenti – essenziali – per misurare le revenue della tua presenza aziendale e di brand sui social network che danno maggiore risalto alle attività, ai prodotti e ai messaggi che si desiderano lanciare.

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Filed Under: Facebook, Instagram, Social Media

Facebook Watch è approdato in Italia!

21 Settembre 2018

A distanza di 20 giorni dal lancio, anche in Siks abbiamo deciso di parlare della buona novella nata in casa del gigante blu dei social: Facebook Watch, la nuova piattaforma video on demand.
Già, perché il colosso marchiato Zuckerberg non poteva certamente mancare nel grande mercato dei contenuti video, e dopo il grande successo di Netflix e delle altre decine di piattaforme che offrono sit-com, film, miniserie e altre deliziose amenità. Vediamo insieme come funziona.

Il mercato del video on-demand

La Pay-tv, ormai, sembra un vecchio ricordo: come sostiene, infatti, Corrierecomunicazioni, i ricavi delle piattaforme on-demand, come Amazon e Netflix, aumenteranno del 12% nella sola Europa occidentale, entro il 2021, viste anche le imminenti notizie in tema di sviluppo della rete, con il futuro lancio della rete 5G. Un background, questo, che Facebook non poteva certamente ignorare.

Come funzionerà Facebook Watch?

Il debutto della piattaforma risale allo scorso 30 agosto: un lancio che non è passato in sordina, preannunciato da un paio di anni, per un canale già attivo da un anno negli USA. Ora Watch è disponibile in tutto il mondo: e gli account attivi sono già due milioni.
L’ispirazione che sta alla base di questo nuovo canale è proprio YouTube: i video, infatti, vengono proposti sulla base alle preferenze di ogni utente. Come si esprimono, però, queste preferenze? Ovviamente attraverso il buon vecchio like, e in base alle interazioni con gli amici e i loro post. Non solo: proprio come succede con le notizie del feed, anche i video di Watch potranno essere salvati, per essere visti successivamente.

Per quanto riguarda la programmazione e la scelta del menù video, questa funzionerà come in tutte le piattaforme on demand di video: molti dei contenuti saranno realizzati appositamente per Watch! Alcuni degli show attualmente presenti sono Red Table Talk con Jada Pinkett Smith, e Huda Boss, trend particolarmente made in USA, già pronti per sfondare anche in Italia. Watch è disponibile su iOS e Android, sul web, ma non solo: lo trovi anche sulle TV Apple, Samsung, Amazon e Oculus.

Video Party: cosa sono?

Watch esprime con le sue funzionalità un primato: quello del coinvolgimento attivo dei follower e degli utenti grazie ai Video Party, in cui gli utenti possono commentare i contenuti durante la visione, interagendo con gli altri utenti che sono, in quel momento, collegati. Un po’ come succede con le dirette Facebook. Questi Video Party saranno attivi durante le prime visioni e gli eventi live, oppure in occasione di live e talk show. Insomma, il pubblico potrà così abbattere le barriere che da sempre hanno caratterizzato lo spettatore ante litteram, immergendosi in una realtà vivida, interattiva e basata sulla condivisione.

Restiamo in attesa, quindi, dei risultati: Watch è gratuito, e rappresenta una freschissima novità nel mondo social e interattivo. E tu? Hai già fatto il primo accesso? Noi non vediamo già l’ora di rimetterci sul divano, carichi di pop-corn e curiosità!

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