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Real time marketing: come Renault ha risposto a Shakira

30 Gennaio 2023

Il nuovo singolo di Shakira, Music Sessions Vol 53, è diventato virale.
Nel testo, la cantante si scaglia contro l’ex marito, il calciatore Gerard Piqué, e la sua nuova fidanzata, Clara Chia Marti, con un verso in particolare: “Hai scambiato una Ferrari con una Twingo, hai scambiato un Rolex con un Casio“.
Insomma, Shakira associa sé stessa a due brand di lusso (Ferrari, Rolex), ponendoli in contrasto con i due marchi a cui associa la rivale (Twingo, Casio): il paragone ha fatto furore, scatenando l’ironia del web.
Come spesso accade, gli utenti sono stati più veloci dei brand: in pochissimo tempo è nato un account fake di Casio che su Twitter ha pubblicato risposte divenute virali come “Non saremo Rolex, ma i nostri clienti ci sono fedeli” (un riferimento al fatto che Piqué abbia tradito Shakira) e “La batteria dei nostri orologi dura più della relazione di Piqué e Shakira”.

Renault ha adottato un approccio simile sui suoi canali social ufficiali, riconnotando in positivo alcune caratteristiche del proprio prodotto mediante riferimenti diretti al testo della canzone. Se Shakira, rivolgendosi a Piqué, dice di essere sprecata “per tipi come te”, Renault ribatte sostenendo che il modello in questione è invece specificatamente rivolto a “tipi e tipe come te”. Presentando la Twingo come un’automobile per tutti, Renault ne valorizza l’accessibilità in contrasto con il lusso della Ferrari, per molti irraggiungibile, a cui Shakira si accosta. È un concetto curiosamente simile al celeberrimo Think Small della storica campagna di Wolksvagen del 1959, per cui la semplicità diventa un punto di forza.

Pa tipos y tipas como tú. ¡Sube el volumen! #Renault #Twingo #claramente #joven #urbano #eléctrico #ágil #Icónico #compacto #travieso pic.twitter.com/eND207qM3H

— Renault España (@renault_esp) January 12, 2023

La risposta più eclatante è arrivata, a sorpresa, con un’insegna fisica. Fotografato da numerosi passanti, il cartellone pubblicitario – posto nei pressi dello stadio di Barcellona, in cui si allena Piqué – ha presto fatto il giro del web.


Qui troviamo diversi copy che, citando il testo della canzone, mettono in luce i punti di forza della Twingo in contrasto con la relazione fra Shakira e Piqué. ad esempio: “Da 0 a 100 in più tempo di quanto è durato il vostro matrimonio” e “Il nostro motore non ti lascerà mai, il tuo ex marito lo ha già fatto”.

Più sottile la risposta di Renault Colombia (paese Natale della cantante), che su Twitter promette a Shakira di amarla per sempre (sottinteso: a differenza di suo marito).

Twingo te va a querer siempre @shakira
Lo prometemos. #Twingo #Twingo30años https://t.co/y387N5fNWy

— Renault Colombia (@Renault_Co) January 12, 2023

Insomma, da un lato Shakira ha sminuito la Twingo paragonandola con la Ferrari, dall’altro Renault ha posto l’enfasi proprio su ciò che la distingue da un’auto di lusso e ha “studiato” bene il testo della cantante per rispondere con frecciatine altrettanto fulminanti.
Ritrovandosi inaspettatamente al centro di un evento mediatico di ampia portata, Renault ha colto l’occasione per prendere le redini e ribaltare la situazione con ironia e tempestività.

Noi possiamo aiutarti a valorizzare l’identità del tuo brand in ogni occasione. Contattaci!

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Neuromarketing: il potere della scienza applicata al marketing

22 Maggio 2019

Fondere il marketing tradizionale con la neurologia e la psicologia: una particolare “mistura” che chiamiamo neuromarketing. Una commistione tra scienza medica ed economia ormai divenuta una teoria – scientifica! – di riferimento per il marketing e le sue sfumature, tra retail fisico e web, grazie alle possibilità che essa offre nell’individuare canali di comunicazione che mirano dritto dritto ai processi decisionali d’acquisto. Perché il neuromarketing si prefigge un obiettivo tanto visionario quanto concreto: illustrare ciò che accade nel cervello delle persone, prima che queste diventino utenti, o clienti, analizzando alcuni stimoli indotti da prodotti, brand e advertising, per creare strategie forti il cui obiettivo porta direttamente… a un click sul bottone “check out”.

Alla base del neuromarketing c’è una ricerca:

Fu Ale Smidts, ricercatore olandese, a occuparsi per primo di neuromarketing, oltre che a coniarne il nome: correva l’anno 2002. E proprio Smidts scopri come alcune zone del sistema cerebrale umano siano decisamente più attive durante l’esecuzione del processo decisionale – vere e proprie lampadine a intermittenza – legato all’acquisto. Come scoprì tutto questo? Attraverso sistemi di risonanza magnetica funzionale ed EEG, ovvero encefalogrammi, per dare una spiegazione neurocognitiva agli stimoli più puramente emozionali. La finalità dell’esperimento? Quello pubblicitario e strategico, per aiutare i big brand a determinare l’appeal e la potenza comunicativa dei loro prodotti e il percepito della loro comunicazione.

Due casi-test esemplificativi

Martin Lindström è l’autore di “Buy-ology”, best seller del campo marketing e vendite: nella sua opera, l’autore ha dedicato ampio spazio a un test che vede protagoniste le controindicazioni riportate sui pacchetti di sigarette: attraverso l’intervista a un campione di fumatori impenitenti, a cui è stato chiesto quali effetti avessero questi messaggi, è stato dimostrato che, sebbene molti di loro avessero dichiarato un “ripensamento” sul fumo, i loro centri nevralgici, monitorati da un EGG, dichiaravano una forte, fortissima voglia di fumare.

Anche il famoso Pepsi Challenge Test costituisce una splendida allegoria di quello che è il potere del neuromarketing: ai consumatori-campione è stato chiesto di scegliere tra due tazze bianche contenenti, rispettivamente, Pepsi e Coca-Cola. I risultati sono stati stupefacenti: la maggioranza di chi ha preso parte all’esperimento ha asserito di preferire la Pepsi, senza sapere cosa ci fosse in realtà nelle tazze. Ma non solo: quando è stato loro domandato se avessero bevuto Pepsi o Coca-Cola, quasi tutti hanno detto di aver bevuto quest’ultima. Perché? Perché ha vinto l’immagine di brand più forte, con oltre un secolo di ADV serrata e di riconoscibilità assoluta. Quando la fedeltà al marchio va oltre la percezione del reale.

Neuromarketing: quali campi di applicazione?

Pensiamo all’ecommerce, ma pensiamo anche alle strategie di re-branding, o di branding “da zero”, fino alla user e customer experience: tutto questo presuppone una visione del marchio, dei suoi valori, della sua unique selling proposition, e della sua capacità di ammaliare che parte proprio dall’impatto. Infatti, le persone ricordano un marchio, e l’esperienza che questo sa regalare, quanto più questo è in target con i loro bisogni, le loro necessità, i loro gusti, anche indotti. E, il rovescio della medaglia, vede protagonisti i brand, che hanno ormai la grande responsabilità di conoscere alla perfezione il proprio pubblico. Perché non utilizzare, dunque, all’interno delle proprie strategie di branding, che comprendono sito web, esperienze di navigazione e di acquisto, campagne pubblicitarie, gestione dei social media, e molto altro, il coinvolgimento emotivo? Non parliamo di sola e pura emozionalità, ma anche di suscitare un’urgenza di acquisto: e tutto questo è applicabile anche nel settore retail e shop concreto, non solo a ciò che è legato al mondo web.

Come fare? Beh, laddove non sia possibile testare la risposta cerebrale agli stimoli con un EEC dei propri clienti, cosa decisamente non facile, possiamo dedicare un po’ del nostro tempo ad alcuni testi che aiutano a comprendere e ad applicare modelli di neuromarketing alle strategie: un titolo che ha spopolato in Siks ADV è certamente “Brainfluence” di Roger Dooley che, attraverso 100 esempi pratici, propone esperimenti ed esempi di “decision pattern” tutti da applicare.
Non ci resta che augurarvi buona lettura!

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Instagram: metamorfosi estetica? Ecco cosa sta succedendo

9 Maggio 2019

Instagram, da reale trend-setter popolato dagli ormai ultra-noti influencer, muta aspetto in tempi vertiginosi, velocissimi: non tanto per il layout, come fa il cugino Facebook, ma proprio a livello di aspetto, di mood delle immagini che lo popolano.
Un cambiamento di estetica guidato dalla Generazione Z dove i millennials, con le loro immagini di caffè e pc, non si trovano più così a loro agio. La metamorfosi sta, ovviamente, prendendo piede soprattutto negli USA, come testimonia il magazine The Atlantic, ma viene da chiedersi se questa contagerà presto anche il vecchio continente.

Gli utenti crescono (o meglio, cambiano) e l’estetica si plasma:

La piattaforma Instagram è cresciuta così tanto negli ultimi 2 anni da arrivare a contare quasi 1 miliardo di utenti mensili. Ed è proprio questa massa che sta apportando un reale cambio di estetica: i protagonisti sono ora pareti luminose, lattine disposte ad arte, toast all’avocado, l’aspetto curato, patinato e lucido, le luci fredde e correzione cromatica fai-da-te. Niente più calore, niente più filtri Lo-Fi. E le foto che impersonificano queste tendenze riscuotono un tale successo che il mood è ormai sinonimo della piattaforma stessa; anzi, sta dilagando all’esterno.
Proprio The Atlantic ci invita a “farci caso”: anche se non utilizzi l’app, hai sicuramente incontrato, in un ristorante, in un bar, un bagno dai colori vivaci che sembra fatto apposta per essere fotografato.

Sempre The Atlantic interpella, poi, James Nord, Amministratore Delegato di Fohr, una piattaforma di consulenza e gestione specializzata in influencer marketing, il quale afferma di vedere ogni giorno questo cambiamento direttamente nei numeri – in termini di follower – dei suoi clienti: “Ciò che ha funzionato prima, ora non funziona più“, dice. “Per la prima volta, gli influencer si scontrano realmente con il problema di poter continuare a crescere mentre i gusti degli utenti Instagram cambiano repentinamente. Un anno fa, un influencer poteva pubblicare uno scatto con mani ben curate su una tazza di caffè e fare man bassa di mi piace, ma ora non più.”

Sempre secondo Fohr, il 60 percento degli influencer con più di 100.000 follower in realtà sta perdendo centinaia seguaci, mese dopo mese. “È piuttosto impressionante“, dice Nord “Essere un influencer che, nel 2019, fa ancora coloratissimi scatti in piedi di fronte agli ‘Instagram wall’ è difficile.”

Musei e big fun art a portata di scatto

Facciamo un passo indietro: “Instagram wall”? Sì; anzi, oltre ai muri di più: perché esistono veri e propri “musei” creati apposta per gli scatti social. Almeno Oltreoceano. E si tratta di reali manifestazioni di quell’epoca che il critico di Artnet New Ben Davis ha chiamato “Big Fun Art”. Infatti, i social come Instagram hanno portato a un modo più popolare di consumare cultura: ovvero, attraverso questi musei-contenitori di installazioni coinvolgenti, fatte di gomma, marshmallows, biglie, così divertenti e foto-friendly, dove basta pagare un ticket di ingresso – dai 30 dollari ai quasi 200 di un vip pass – per i propri scatti da esporre sul social a caccia di nuovi likes.
Ma, anche qui, qualcosa sta cambiando: pare che queste location multicolor non siano poi più così appetibili perché non più in sintonia con la nuova estetica in arrivo da Instagram, fatta di luci fredde e di pose molto meno plastiche.

La dura vita dell’Influencer

Certo, la piattaforma stessa potrebbe essere parzialmente responsabile di come si sono evolute le cose: ma sono i gusti di chi popola Instagram a dettare legge, la loro età, e il loro senso estetico, trasmettendo queste necessità anche agli influencer stessi, i quali, in più casi, hanno denunciato  casi di burnout e di stress causato dal dover a tutti i costi mantenere la perfezione. Un motivo in più per abbandonare il proprio stile, cedendo a quelle che sono le richieste degli utenti, pena la perdita del titolo di trend-setter.

Che cosa succederà in Italia nei prossimi mesi? Lo scopriremo, e vedremo se questa tendenza spopolerà anche nel nostro paese. Nel mentre, curare al meglio la propria presenza sui social, prestando massima attenzione ai trend, applicandoli alla propria strategia sembra essere la soluzione migliore.
Come? Non hai una strategia? Bene, allora qui possiamo aiutarti noi!

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Un orizzonte umano: Lush, Facebook, Snapchat parlano alle persone

16 Aprile 2019

Le nostre antenne sono sempre ben sintonizzate sul mondo dei social media: infatti, questi potentissimi canali sono in grado di darci il polso della situazione non solo del mondo marketing e digital, ma anche di come le persone – che sono il nostro target privilegiato per comunicare – recepiscano e vivano questi spazi.
E proprio le “persone” sono al centro delle ultime novità del mondo social media: tra un brand che lascia il tavolo di gioco a carte scoperte, Facebook che implementa una funzione strettamente “umana”, e Snapchat che si avvicina ulteriormente alla sua fetta di pubblico. Il tutto, in tre news dal mondo digital che in questo freddo aprile hanno saputo scaldare il cuore di tanti marketers. Tra un bug e l’altro.

Lush (UK) lascia i social

Mail, telefono, chat sul sito web e, ovviamente, punti vendita e flag stores: questi sono gli unici mezzi attraverso cui clienti e (ormai ex) follower potranno raggiungere Lush nel Regno Unito. Il famoso brand beauty 100% vegano ha infatti annunciato – con un tweet – l’uscita di scena dai social UK. Una decisione che sembra voler far riflettere su due punti: algoritmi invadenti, e necessità di stringere un contatto diretto, un approccio “human to human”, ma anche una riflessione sul non voler più pagare per la visibilità confluita dalle campagne ADS.
Un ritorno alle origini? Beh, di certo si tratta di una mossa che non riguarda la totalità dei paesi in cui il brand è presente, e che si restringe solo a un player della strategia social del brand. In Italia, infatti, i canali Lush sono ancora attivi!

Facebook lancia la funzione per commemorare i defunti

Se per qualche brand l’orizzonte social si è fatto scuro, ecco che per uno strano gioco di tempistiche, proprio mente Lush saluta i media per dedicarsi al contatto umano, Facebook lancia un’estensione che consentirà alle persone di unirsi e celebrare il ricordo di qualcuno amato, con la funzione di commemorazione dei defunti: si tratta di una modalità attraverso cui creare una community che dia spazio a ricordi, aneddoti e messaggi per ricordare chi è venuto a mancare, dalla funzionalità semplice e immediata. Infatti, un amico, un parente, o un erede della persona scomparsa potrà divenire amministratore del profilo, trasformandolo così in pagina di commemorazione: un admin, a tutti gli effetti, che potrà anche fare affidamento su standard di controllo – da parte della piattaforma – molto alti, per far sì che il ricordo rimanga puro e non venga strumentalizzato in alcun modo.

Snapchat si potenzia, per il piacere del suo pubblico

Notizia di soli 4 giorni fa: Snapchat sviluppa nuovi filtri e una sezione “show” che sembra voler percorrere un binario parallelo a quello di Facebook Watch.
Snapchat è un sistema di chat nato solo nel 2011 a opera di due studenti di Stanford, ed è certamente uno degli strumenti più utilizzati nella quotidianità tra i teenagers.
Non solo: Snapchat sta divenendo, in sordina, un social a tutti gli effetti. Infatti, nel 2013, Snapchat suscitò l’interesse di Zuckenberg che offrì ben 3 miliardi di dollari per l’acquisto della piattaforma. Oggi, a quasi 5 anni dal rifiuto di quell’offerta così cospicua, ecco che Snapchat si concentra sul lancio di serie – veri e propri show pomeridiani, tra cui uno realizzato da BuzzFeed – e di una piattaforma gaming con cui giocare in tempo reale con i propri amici durante una semplice chat, fino alla piattaforma per sviluppatori. Ma questa, forse, è una storia che merita un approfondimento a parte!

E così, tra down sempre più frequenti dei colossi, come quelli di Instagram, Facebook, Whatsapp – un malfunzionamento di concerto che risale al 15 aprile e che segue di appena 30 giorni il down più lungo della storia, durato ben 14 ore – all’orizzonte non ci sono solo abbandoni, neanche troppo a malincuore, come quello di Lush, ma anche alternative e strumenti che ci permettono di allargare la nostra visione social, ampliandola e rendendola differente, come con Snapchat, per una strategia che tenga conto non solo della vera socialità, quella che si basa su rapporti tra esseri umani, ma anche di scorciatoie e di nuove risorse che – chissà – un giorno potranno costituire una risorsa con cui andare controcorrente.

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Lo storytelling sociale e l’esempio di GLAAD

19 Marzo 2019

Lo storytelling ha un impatto altissimo non solo nella comunicazione più diffusa, comune e quotidiana, tra landing page, siti web e advertising su carta stampata: da diverso tempo, infatti, questa ormai disciplina per eccellenza del mondo comunicativo sta raggiungendo risultati insperati anche tra le istituzioni e nel sociale. Sì, proprio quel “sociale” che finisce con “e”. Perché lo storytelling non nasce con il web, ma è un patrimonio che l’uomo porta con sé dall’alba dei tempi. E oggi, nel nostro blog, vorremmo raccontarvi la storia dello storytelling sociale e di GLAAD. Partiamo!

Un momento: ma cosa fa lo storytelling sociale?

Di storytelling sociale ne parla ampiamente la Rockfeller Foundation, – fondazione americana filantropica che si occupa del raggiungimento dei diritti umani fondamentali – in particolare attraverso la figura del digital director Jay Geneske: dal favorire la connessione emotiva tra chi parla e chi ascolta, usando un linguaggio proprio ma riconoscibile, “sdoganando” anche terminologie ancora poco note, o neologismi, per riflettere su temi caldi, poco dibattuti o ostici.
Solo così, infatti, possono così superare processi complessi di comprensione e di accettazione.

Il caso GLAAD

Ai più, questo nome non dirà nulla. Ma GLAAD è l’acronimo di Gay & Lesbian Alliance Against Defamation (ovvero: “Alleanza gay e lesbica contro la diffamazione”), ed è un’associazione che dal lontano 1990 monitora cinema, televisione, advertising e tutto ciò che ha a che vedere con i media non solo americani, ma internazionali, combattendo ogni tipo di rappresentazione distorta delle persone GLBT. E, da una decina di anni a questa parte, GLAAD è un movimento estremamente attivo anche nel web, non solo attraverso questo continuo monitoraggio del sentiment e delle issue relative al tema dei diritti gay, ma fornendo anche una chiave di lettura fatta di storie quotidiane che raccontano attività, battaglie  e principi saldi su cui si muovono. Perché “GLAAD” – come si legge sul loro sito web – “riscrive lo script per l’accettazione LGBT e, come dinamica forza mediatica, GLAAD affronta questioni difficili per modellare la narrativa e provocare un dialogo che porta al cambiamento culturale.” Insomma, dialogo, script, forza mediatica. Storie vere, raccontate dalla prima persona, collaborazione e creazione condivisa con utenti e pubblico, raccontando storie a “un passo da noi” di grande normalità, eppure spesso incomprese.

Questo è il messaggio-storytelling di GLAAD, diffuso attraverso diverse properties, come un sito web che offre contenuti, opportunità di connessione e opportunità di attivazione, come riporta proprio l’articolo su digital e social storytelling della Rockfeller Institution, e una moltitudine di strumenti, tra cui il blog, aggiornato quotidianamente, per trasmettere messaggi chiari, identificabili, comprensibili che, in questo caso, non hanno un pubblico definito, ma che cercano di arrivare alla collettività nella sua interezza, per individuare, poi, obiettivi sotto-specifici.
Il tutto servendosi non solo degli strumenti web – la loro pagina Facebook è un continuo aggiornamento e raggiungimento di risultati importanti a livello comunicativo e, quindi, umano – ma anche di eventi, come i Glaad Media Awards, che si terranno proprio il 28 marzo prossimo.

Il linguaggio di GLAAD che ci racconta una storia

Glaad, da ormai oltre 30 anni, porta avanti l’importante azione di “shaping the media“, sensibilizzando il mondo “against defamation”, e lo fa raccontandosi, soprattutto attraverso un vocabolario specifico fatto di Media Institute, Engagement, Entertainment Media e, per l’appunto, Stories: le storie di chi vive la propria omosessualità in zone difficili, come nel sud degli USA, e le storie di ciascuno, condivisibili attraverso la piattaforma “Share your story”.

Immedesimarsi, raccontare, analizzare: grazie allo storytelling è davvero facile. E così, può diventare ancora più semplice abbattere i muri di pregiudizi e le barriere dell’intelligibilità semplicemente raccontando una storia semplice, dando voce e immagine a una parte di società non sempre così visibile.

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Video sul Web – Facebook vs Youtube

3 Febbraio 2015

Non vi è dubbio alcuno che i video sul web siano una risorsa molto importante per il web-marketing: i video coinvolgono. A questo punto resta da capire qual è il posto migliore per caricare i propri video. Cosa funziona meglio, Facebook e Youtube? E Vimeo dove si colloca in tutto questo? Parliamone un attimo.

Secondo un recente studio di SocialBakers Facebook, nella guerra tra player video, è quello che esce vittorioso. Il sorpasso di Facebook su Youtube c’è stato già a Novembre, ma è stato il mese di Dicembre ad aver davvero visto il trionfo di Facebook

In questo grafico ci sono alcune cose da considerare. La domanda da farsi è la seguente: perché i brand preferiscono caricare video su Facebook invece su Youtube? Come sappiamo Facebook ha un problema con la reach dei post delle pagine, i video però sono i contenuti che, secondo la nostra esperienza (e non solo), maggiormente raggiungono l’utente. Non stupisce quindi che le pagine, per raggiungere gli utenti con il loro messaggio, si affidino ai video. Che per altro funzionano molto bene con le inserzioni a pagamento.

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