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Siks adv

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Creative communication agency

Sara

Brand VS Brand: esempi di pubblicità comparativa

4 Maggio 2022

Il concetto di pubblicità comparativa ci porta subito alla mente diversi livelli di adv: da un lato le pubblicità dei prodotti d’igiene con relativo paragone che svela quale dei due funziona meglio, dall’altro le lotte a colpi di creatività fra colossi come Pepsi e Coca Cola. Se in Italia è illegale fare riferimenti diretti ad altri brand, negli Stati Uniti e in altri Paesi c’è molta più libertà, anche se denunce e sanzioni sono sempre dietro l’angolo.
Scopriamo insieme quali sono le strategie di comunicazione più utilizzate nella pubblicità comparativa prendendo in rassegna alcuni degli esempi più significativi.

Ribaltare le aspettative

Davanti alla prospettiva di incappare in denunce, la pubblicità comparativa finisce spesso per “giocare con il fuoco”. Il gioco è condotto anche in relazione a chi guarda, dato che spesso gli ad di questo tipo giocano a tradire le aspettative dello spettatore, spingendolo a credere che si tratti di una pubblicità del loro competitor.

È il caso di un celebre spot del 2001 ideato da Headshaus: un bambino prende due lattine di Coca Cola da un distributore automatico, ma poi le usa come “sgabello” per raggiungere il pulsante che gli permette di acquistare una Pepsi.

Possiamo poi citare uno spot di Adidas (ideato dall’agenzia Spec nel 2005), meno aggressivo ma comunque efficace: la voce fuori campo spiega che l’abile corridore su cui la telecamera sta ponendo la sua attenzione indossa scarpe Nike, ma poi aggiunge che il cameraman, che deve seguire l’atleta portando con sé la pesante telecamera, indossa scarpe Adidas.

Ammettere uno svantaggio

Nel 1962, nell’ambito del noleggio auto non c’era gara: Hertz vinceva a mani basse. Da qui deriva la geniale intuizione del competitor Avis: ammettere candidamente di essere il “numero 2”. La strategia, ideata dalla celebre agenzia Doyle Dane Bernbach, diede vita ad una campagna che costituisce ancora oggi una boccata d’aria fresca nel mondo della pubblicità comparativa, in cui troppo spesso i brand tendono a ergersi a vincitori a prescindere. Ammettendo l’esistenza di un competitor più ‘forte’, Avis ha evidenziato i propri limiti trasformandoli in punti di forza. Arrivare al secondo posto dopo Hertz significa non potersi permettere di sgarrare: per questo motivo, come suggeriscono gli ad, Avis deve impegnarsi il doppio – non può permettersi di trattare i clienti con scortesia o di farli aspettare; non può permettersi di noleggiare automobili sporche o con poca benzina. La campagna mette in luce un’attenzione al proprio pubblico derivante proprio dal fatto di non essere il leader di mercato: in quest’ottica, per il cliente è più conveniente scegliere il ‘secondo arrivato’.

Questo spot del 2016, ideato dall’agenzia Tbwa, è costruito in modo simile: Burger King riconosce il fatto che i punti vendita del suo principale competitor (McDonald’s) siano distribuiti in modo più capillare, ma suggerisce che le sue specialità siano talmente buone che i suoi clienti siano disposti a fare molti più chilometri per poterle gustare, limitandosi ad acquistare solo un caffè dal ‘rivale’ allo scopo di ‘resistere’ svegli fino al primo Burger King disponibile, salvo poi riconoscere (sul finale) che “non era così lontano”.

Dissacrare con leggerezza

Parliamo infine di una campagna molto fortunata, realizzata per Apple da TBWA\Media Arts Lab dal 2006 al 2009. Gli spot in questione mettono in scena la rivalità con il colosso di Bill Gates, già sottintesa fin dal lancio del Mac: se il celebre spot del 1984 faceva intendere che il nuovo prodotto della Apple avrebbe posto fine al monopolio di Windows, nel 2006 i toni sono meno epici, ma il messaggio è altrettanto efficace.

Nella serie di spot in questione, due attori interpretano rispettivamente il Mac e il PC: il primo è un giovane in abiti casual, il secondo è un uomo di mezz’età in giacca e cravatta. Il dialogo fra i due personaggi mette in luce le differenze fra PC e Mac, suggerendo come ci sia altrettanta differenza fra i tipici fruitori dell’uno e dell’altro device: il cliente di Microsoft è goffo e un po’ impettito, mentre quello di Apple è disinvolto e sicuro di sé. Nel primo spot della serie, il personaggio che interpreta il Mac evidenzia le capacità del PC in relazione a mansioni tecniche (“Dovreste vedere cosa riesce a fare con un foglio di calcolo”), ma poi afferma di essere meglio del competitor per quanto riguarda fotografie, musica e video. Il personaggio che incarna il PC rimane imbambolato di fronte alla dichiarazione del competitor (“Ehi, aspetta… in che senso meglio?”), dimostrando la propria inettitudine nel dialogo che segue, mentre il Mac appare brillante e consapevole, in pieno controllo della situazione. Con questa serie di sketch, Apple è riuscita ad essere dissacrante al punto giusto, valorizzando le proprie caratteristiche e ironizzando sulle lacune del proprio competitor senza mai risultare offensiva.

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Filed Under: Advertising, Campagne Marketing

La psicologia delle forme nel design del logo

13 Aprile 2022

 

La psicologia delle forme è la scienza che studia come le figure, geometriche e non, influenzino la percezione di ogni essere umano, attivando diversi stimoli e reazioni. Si tratta di una componente fondamentale nell’advertising: osservando alcuni dei loghi più famosi, scopriremo come le loro forme geometriche riflettano l’immagine e i valori dei rispettivi brand.

Cerchio, ovale, ellissi

Il cerchio è una forma chiusa, senza inizio né fine: la mancanza di angoli trasmette un senso di armonia, unità e completezza. La sua forma, da sempre associata alla natura (sole, luna), rimanda all’immagine atavica della Dea Madre, legandosi al concetto di maternità e quindi di accoglienza, morbidezza e accessibilità.

Il cerchio può essere utilizzato da brand che desiderano apparire amichevoli, puntando ad esempio sulla facilità e immediatezza nell’utilizzo (Google Chrome) o su una quotidianità semplice e rassicurante (Volkswagen).

 

 

Le forme tondeggianti ispirano un sentimento di tenerezza che può anche rimandare all’infanzia, caratterizzando non solo i pittogrammi, ma anche i font: pensiamo al logo della Walt Disney Pictures.

Non dimentichiamo, infine, che il cerchio è il simbolo dell’infinito e suggerisce quindi un’unione eterna, come quella sigillata dalle fedi nuziali. Pensiamo al logo dei Giochi Olimpici, i cui cerchi simboleggiano l’unità per eccellenza, rappresentando i cinque continenti. Anche Mastercard, Audi e Chanel puntano sul concetto di unione rappresentato dalla sovrapposizione di figure tondeggianti.

Quadrato e rettangolo

Quadrati e rettangoli ispirano un senso di familiarità (gran parte degli oggetti che ci circondano hanno queste forme) e quindi di stabilità, sicurezza, affidabilità.
Case, stanze, cassetti e casseforti presentano queste forme, atte a trasmetterci un senso di robustezza e solidità perché sono i posti in cui custodiamo ciò che abbiamo di più prezioso. Gli angoli e le linee rette di quadrati e rettangoli trasmettono un senso di razionalità, ordine, equilibrio e quindi funzionalità, efficienza, professionalità.

Si tratta di valori incarnati dal logo quadrato di American Express, che punta a ispirare fiducia nei propri clienti, oppure da quello della Rai, radiotelevisione italiana che nel 2010 è passata dalla sagoma astratta di una farfalla (simbolo di fantasia e libertà) ad un più razionale quadrato, assumendo un aspetto più istituzionale in virtù della sua funzione di servizio pubblico, in linea con la britannica BBC.

 

Restando nell’ambito dell’informazione (non solo televisiva), citiamo infine il logo di National Geographic, una delle maggiori istituzioni scientifiche al mondo, celebre per i suoi documentari: la scelta del rettangolo ispira rigore e affidabilità. Anche il font a bastoni, semplice ed essenziale, comunica un senso di ordine e rispettabilità.

 

Triangolo

Nell’osservare una forma triangolare, lo sguardo umano si muove in modo naturale dalla base fino allo spigolo. Per questo motivo, il triangolo è considerato un simbolo di dinamicità ed energia. Il fatto che si rivolga in una specifica direzione fa sì che questa forma venga associata alla perseveranza nel raggiungimento dei propri obiettivi.

Per questi motivi, ad adottare loghi triangolari sono spesso brand legati allo sport (Adidas, Nike) e all’alta velocità (Citroën, Mitsubishi).

 
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Filed Under: Creatività, Graphic Design

Torce di libertà: marketing ed emancipazione femminile

9 Marzo 2022

La celebre campagna Torches Of Freedom, ideata da Edward Bernays quasi un secolo fa, continua ad essere un esempio magistrale di come una buona strategia di marketing possa estendere il proprio target di riferimento e, al contempo, influenzare l’opinione pubblica, accompagnandosi ai grandi movimenti sociali del proprio tempo.

Lo stigma della fumatrice

Negli Stati Uniti, all’inizio del XX secolo, c’era un forte stigma sociale legato alle fumatrici. L’atto di fumare in pubblico era considerato immorale se compiuto da donne. Alcuni stati americani fecero addirittura ricorso alla legislazione: nel 1908, il Consiglio di Assessori di New York approvò con voto unanime un’ordinanza che proibiva alla donne di fumare in luoghi pubblici. Inoltre, l’International Tobacco League fece di tutto per impedire che in film e pubblicità venissero raffigurate donne che fumavano, a meno che non si trattasse di prostitute o di altri modelli femminili considerati negativi.

 

Durante la Prima Guerra Mondiale, le donne sostituirono gli uomini sul posto di lavoro e, potendo godere di una maggiore libertà e indipendenza, cominciarono a farsi meno problemi nel fumare, ma per la società americana si trattava di un tabù difficile da sradicare…

1928: il contributo del marketing

Poi arrivò il marketing: nel 1928, George Washington Hill, Presidente dell’American Tobacco Company, si rese conto di quanto sarebbe stato redditizio estendere il mercato della sigarette alle donne (“sarà come trovare una miniera d’oro proprio nel nostro cortile”), ma dovette scontrarsi con i forti pregiudizi dei suoi contemporanei: l’opinione comune era vicina a quella del proprietario di un hotel che, intervistato dal New York Times, dichiarò che “le donne non sanno davvero cosa farci, con il fumo. Non sanno neanche tenere correttamente in mano le sigarette”. Ciononostante, i produttori di tabacco continuavano a sperare di poter includere le donne fra i propri consumatori: nel 1925 Lucky Strikes, su suggerimento del pubblicitario Albert Lasker, puntò sull’effetto dimagrante delle sigarette per catturare l’attenzione del pubblico femminile e soprattutto delle ragazze più giovani, determinate ad incarnare un nuovo ideale di bellezza, rappresentato dalle flapper, che aspirava alla magrezza. La campagna funzionò, ma le donne avevano ancora timore di accendere una sigaretta in pubblico.

 

 

Fu così che Washington Hill decise di assumere Edward Bernays, oggi considerato il padre delle Pubbliche Relazioni, per capire come approcciarsi a questo segmento di pubblico. Bernays, a sua volta, si fece consigliare dallo psicanalista Abraham Brill, il quale dichiarò che l’istinto di fumare fosse giustificato per le donne, sempre più investite di incarichi fino ad allora tipicamente maschili. Lo stesso Bernays, nipote di Sigmund Freud, era stato il primo a teorizzare che le persone potessero essere spinte a desiderare prodotti di cui non avevano bisogno sulla scia di desideri inconsci, e – ispirato dai movimenti della prima ondata femminista – decise di connotare le sigarette come un simbolo di libertà e uguaglianza fra i sessi: “Oggi l’emancipazione delle donne ha soppresso molti dei loro desideri femminili. Più donne ora fanno lo stesso lavoro degli uomini. Molte donne non hanno figli; quelle che ne fanno ne hanno di meno [rispetto a prima, ndr). […] Le sigarette, che sono associate agli uomini, diventano fiaccole di libertà”.

A scopo promozionale, Bernays assunse un gruppo di donne (dovevano essere attraenti, ma sembrare persone comuni, non modelle) che potessero marciare durante la Easter Holiday Parade di New York nel 1929, sfoggiando le loro “fiaccole di libertà”.
Bernays aveva anticipato alla stampa che quel giorno qualcosa di scandaloso sarebbe accaduto e infatti, sul finire della parata, una decina di donne cominciarono a fumare. Le foto e il filmato di quella manifestazione fecero il giro del mondo e la marcia fu presto associata alla lotta femminista, animando il dibattito socio-culturale in tutti gli Stati Uniti.

 

 

Quelle giovani donne apparivano non solo emancipate, ma anche affascinanti: è stato anche grazie a queste influencer ante-litteram che la sigaretta si affermò come simbolo di uno stile di vita glamour, accompagnandosi alle dive del cinema. Per noi oggi è inconcepibile pensare di associare valori positivi ad un’attività nociva per la salute, ma all’epoca, come scrive lo storico Allen M. Brandt, la sigaretta diventò un simbolo di “indipendenza ribelle, eleganza, seduzione e fascino sessuale sia per le femministe che per le flapper”.

L’impatto della campagna

Sulla scia del successo di Torches Of Freedom, i marchi di sigarette si concentrarono sempre di più sul nuovo target: Chesterfield tirò in ballo il suffragio universale (“le donne hanno iniziato a fumare quasi nel momento in cui hanno iniziato a votare”) e Philip Morris incitò le donne a credere in loro stesse e, in risposta a chi le ridicolizzava, organizzò una serie di conferenze allo scopo di insegnar loro “l’arte” del fumare.

Il lavoro di Bernays non si esaurì con la marcia del ‘29: nel 1934, ad esempio, gli fu chiesto di affrontare l’apparente riluttanza delle donne ad acquistare le sigarette Lucky Strike a causa dei colori del loro pacchetto, verde e rosso, che sembravano stonare con la moda dell’epoca. L’obiettivo fu quello di trasformare il verde in un colore di tendenza: Bernays organizzò il Green Ball, un evento di beneficenza al Waldorf Astoria, a cui le signore dell’alta società avrebbero partecipato indossando abiti verdi, cambiando la concezione del colore agli occhi del pubblico e, prima ancora, della stampa e del settore moda.

 

 

Bernays riuscì, con il tempo, non solo a scardinare il tabù del fumo femminile, ma a farlo diventare un trend: la sua strategia permise di registrare un incremento delle vendite di sigarette tra le donne, che raddoppiarono tra il 1923 e il 1929. Il picco fu raggiunto nel 1965, con le fumatrici che costituivano ormai il 33,3% delle donne americane: un risultato che rimarrà stabile fino al 1977.

In seguito, fortunatamente, l’emancipazione femminile si è slegata dalle sigarette in virtù di una maggiore consapevolezza in merito ai danni del fumo, ma è comunque interessante volgere lo sguardo a un’epoca lontana in cui marketing e femminismo si sono alleati a favore della libertà, facendo la storia della comunicazione pubblicitaria.

 

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La crisi di Facebook: cosa succede al social di Zuckerberg?

14 Febbraio 2022

In questi giorni sembra che il colosso social di Mark Zuckerberg sia in piena crisi: prima la notizia del crollo in borsa, poi addirittura la prospettiva di chiudere le proprie piattaforme in Europa.
Cosa sta succedendo esattamente? Facciamo il punto della situazione.

Calo di utenza: concorrenza e questioni etiche

È la prima volta, dalla nascita di Facebook nel 2004, che il numero di utenti sulla piattaforma diminuisce anziché aumentare. Si tratta di una perdita di circa un miliardo di utenti fra quelli attivi giornalmente: un dato che sembrerebbe riguardare principalmente il Nord America, da cui proviene la maggior parte degli introiti pubblicitari della compagnia.
Per questi motivi, il calo ha avuto un impatto molto forte in borsa: il titolo azionario ha perso più del 20 per cento del suo valore di mercato alla Borsa di Wall Street, corrispondente a più di 200 miliardi di dollari.

Quella di Zuckerberg resta un’azienda di incredibile successo, con 40 miliardi di dollari di profitto solo l’anno scorso, ma il trading in borsa non può essere redditizio senza una crescita. Il modello è maturo e il mercato è saturo, avendo perso di attrattiva negli USA, in Europa e perfino nel resto del mondo (che finora aveva offerto prospettive di crescita), quindi il suo valore azionario cala.

Nel comunicato stampa che accompagna la notizia, Zuckerberg ha individuato la causa del crollo non solo nella crisi della supply chain e nell’aumento dell’inflazione, ma anche nella concorrenza da parte di altre piattaforme, in particolare TikTok, social prediletto dei teenager, target per cui Facebook non risulta adatto – non solo per il fatto di non essere riuscito ad adattarsi con successo al format degli short video, ma anche a livello etico. Stiamo parlando dei Facebook Papers: a ottobre dello scorso anno, su internet sono trapelati alcuni documenti interni della società che dimostrano come questa fosse consapevole degli effetti dannosi delle proprie piattaforme sulla salute degli adolescenti, soprattutto delle ragazze, a cui potrebbe causare depressione, ansia e calo di autostima. È stato in questo momento che l’azienda dietro a Facebook e Instagram ha optato per un rapido rebranding, rinominandosi “Meta”: la scelta è stata vista come un goffo tentativo di scrollarsi di dosso la responsabilità dell’accaduto, gettando fumo negli occhi a utenti e investitori con un nome che facesse riferimento al metaverso, la realtà virtuale su cui Zuckerberg afferma di voler puntare sempre di più.
È proprio a seguito di questo scandalo che il brand Lush ha abbandonato per la seconda volta (e in modo permanente, sembrerebbe) le piattaforme social, perdendo svariati milioni di dollari in virtù dell’etica e del rispetto per il proprio target: si tratta di una scelta che non tutti i marchi possono permettersi di compiere, ma il calo di utenti registrato da Zuckerberg può essere un segnale positivo verso la costruzione di un ambiente virtuale più sano per tutti.

Questioni di privacy

Fra le cause della crisi, Zuckerberg cita anche la modifica delle regole della privacy da parte di Apple lo scorso aprile, che rendono più difficile il tracciamento degli utenti che utilizzano iPhone, e dunque la possibilità di mostrare loro annunci pubblicitari personalizzati. Apple ha infatti introdotto l’aggiornamento “Trasparenza del monitoraggio delle app” e molti utenti hanno disabilitato il tracking relativo a Facebook, spingendo gli inserzionisti a privilegiare altre piattaforme, come Google.

A questo si aggiunge la recentissima conference call durante la quale l’azienda di Zuckerberg ha dichiarato che potrebbe presto essere costretta a chiudere Instagram e Facebook in Europa, qualora il nostro continente non dovesse adottare un nuovo quadro normativo in materia di trasferimento dei dati.

Fondamentalmente, “se non siamo in grado di trasferire dati tra paesi e regioni in cui operiamo, o se ci è vietato condividere dati tra i nostri prodotti e servizi, potremmo non essere più in grado di offrire servizi o di indirizzare gli annunci”, dichiara l’azienda, che si dice fiduciosa in merito ad un possibile accordo con le autorità nel corso del 2022.

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