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SEO: buone pratiche per migliorare il proprio ranking

26 Gennaio 2022

 

Adottare buone pratiche per l’indicizzazione e conoscere i parametri di base per l’ottimizzazione SEO può aumentare il ranking del proprio sito all’interno dei risultati di ricerca di Google. Scopriamo quali sono gli accorgimenti da adottare nel 2022.

 

Regole di base

Ottimizza la tua presenza nella SERP

Chi trova il sito di un’azienda fra i risultati di ricerca di Google dovrebbe farsi subito un’idea chiara del brand in questione, capendo a colpo d’occhio di cosa si occupa e come può rispondere alle esigenze del suo target. La prima cosa da fare è reclamare e ottimizzare la scheda Google My Business della propria attività. I risultati del report annuale di Google (Year in Search 2021) hanno inoltre registrato un crescente interesse nei confronti delle attività commerciali di prossimità, favorito dall’utilizzo di ricerche vocali: una geolocalizzazione accurata risulta dunque fondamentale per i business B2C che si occupano di vendita al dettaglio.

 

Rispondi agli intenti di ricerca

Le parole chiave non hanno la stessa importanza di un tempo: da diversi anni Google premia molto di più il fatto che un sito riesca a rispondere all’intento di ricerca dell’utente, ossia al problema che vuole risolvere, alla domanda a cui cerca risposta.
Insomma, per essere trovati dai clienti è importante chiedersi quali possano essere i loro bisogni e come poterli soddisfare.
È fondamentale che i contenuti richiesti siano facili da trovare (la struttura del sito dev’essere intuitiva), reperibili in breve tempo (il sito deve caricarsi velocemente), ed espressi in modo chiaro ed esauriente, altrimenti l’utente cercherà altrove. Alla luce di questo, può essere utile creare una pagina FAQ che raccolga tutte le domande più gettonate e/o impostare i testi più importanti del sito come se ogni paragrafo costituisca la risposta ad un quesito posto dall’utente.

 

Mobile First, velocità, sicurezza e accessibilità

In linea con le abitudini di navigazione degli utenti, Google pone molta più attenzione alla versione mobile dei siti rispetto a quella per desktop. È importante assicurarsi dunque che l’esperienza di navigazione da cellulare sia soddisfacente, che il layout sia responsive, che le pagine vengano caricate in breve tempo e che siano sicure e protette grazie all’installazione di protocolli SSL.
In generale, Google favorisce siti che siano user friendly – la user experience è sempre al centro di ogni strategia SEO – e che presentino contenuti fruibili anche dagli utenti diversamente abili. Consigliamo quindi di ottimizzare l’accessibilità del sito compilando il Testo Alternativo (ALT text) in tutte le immagini: questo permetterà alle persone non vedenti di conoscerne il contenuto. Si consiglia inoltre di scegliere sempre immagini pertinenti e di qualità, rinominate con le keyword corrette, e di non pubblicare file troppo “pesanti” che rallenterebbero la navigazione.

 

Testi approfonditi, linguaggio naturale

Si consiglia di redigere articoli lunghi, approfonditi e ben strutturati.
È importante che i testi rispettino i criteri del paradigma di Google EAT, ossia expertise (esperienza), authoritativeness (autorevolezza) e trustworthiness (affidabilità), che pongono le loro basi sulla reputazione online e dunque anche sulla presenza di backlink.
È inoltre fondamentale ottimizzare il proprio testo in modo che risulti funzionale alla sempre più diffusa ricerca vocale, che non si basa quasi mai su una parola chiave secca, ma su query discorsive e dunque su un linguaggio naturale.
 Dal 2015, questo fattore viene valutato da Google BERT (Bidirectional Encoder Representations from Transformers), un update dell’algoritmo del motore di ricerca grazie a cui il browser è in grado di comprendere il linguaggio naturale degli utenti e dunque i loro intenti di ricerca. A BERT si aggiungerà presto MUM (Multitask Unified Model), un nuovo modello in grado di comprendere in modo ancora più profondo i sentimenti, il contesto e le intenzioni dell’utente. Come suggerisce il suo nome completo, MUM è anche multitasking: gli utenti potranno combinare testo, immagini e voce per ottenere risultati ancora più rilevanti per le loro query di ricerca. Ad esempio, sarà possibile chiedere se un paio di scarponi (con foto allegata) possano essere adatti per un’escursione sul Monte Bianco: in caso di risposta negativa, l’algoritmo potrebbe consigliare un prodotto più adatto allo scopo. Le possibilità fornite da questo nuovo strumento sono davvero ampie e mai sperimentate prima.


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Filed Under: Campagne Marketing

Social Commerce: vendere sui social

25 Gennaio 2022

Siamo abituati a pensare ai social network come strumenti attraverso cui coltivare la propria brand awareness, ma il Social Commerce ci sta dimostrando come una buona comunicazione possa portare l’utente a percorrere l’intero marketing funnel, raggiungendo la conversione all’interno della stessa piattaforma.
Scopriamo i vantaggi e le potenzialità della vendita sui social!

Un’occasione da cogliere

Negli ultimi due anni, non solo è aumentato il tempo che gli utenti passano su internet (e sui social, nello specifico), ma anche la fiducia nei confronti degli acquisti online. Nel 2020, secondo il rapporto annuale di Casaleggio e Associati, il 31% dei consumatori ha affermato di comprare in rete quello che prima era solito acquistare nei negozi fisici. In quest’ottica, le opportunità offerte dalla vendita diretta sui social network possono risultare particolarmente fruttuose, considerato che il loro pubblico è numeroso (supera di gran lunga il 50% della popolazione italiana) e gode di un alto grado di profilazione. La vendita diretta sui social media presenta diversi vantaggi rispetto al resto del commercio online, ma segue regole proprie: rispetto all’ecommerce tradizionale, è necessario ripensare il funnel di vendita sviluppando contenuti che instaurino una relazione con gli utenti, mettendoli in condizione di poter esprimere liberamente la propria opinione.

Perché funziona: consigli e opportunità

Fra i fattori che decretano il successo del Social Commerce c’è sicuramente il fatto che gli utenti abbiano già una certa familiarità con le varie piattaforme social, su cui passano svariati momenti di svago: questo fa sì che la procedura d’acquisto risulti essere semplice, piacevole e fluida. Infatti, il Social Commerce riduce i passaggi che portano al completamento dell’acquisto: il potenziale acquirente, se interessato alla proposta, non è più costretto a interrompere la propria sessione per approdare su un sito esterno. Tutto inizia e finisce sui social.
Evitando tutti gli elementi d’attrito che frenano le conversioni, il Social Commerce favorisce gli acquisti d’impulso: può essere dunque consigliato puntare su prodotti a basso costo e contenuti che propongano stili di vita e spunti di utilizzo.

Secondo la ricerca condotta da Maria Vernuccio, Annaluce Latorre e Alberto Pastore, e confluita nell’articolo “Le imprese e il social commerce: opportunità e sfide manageriali”, il Social Commerce “favorisce la […] fiducia nei confronti del canale online, in generale, e del venditore, in particolare”, vincendo la diffidenza percepita in relazione alla vendita su altri canali online. Sicuramente, come dicevamo, torna utile il fatto di acquistare su una piattaforma già familiare, ma secondo gli studiosi è soprattutto la condivisione di esperienze con altri utenti, che possono testimoniare l’affidabilità del venditore, a ridurre la percezione del rischio, aiutando a superare gli scetticismi che frenano l’acquisto. Non dobbiamo infatti dimenticare l’effetto “social proof”, secondo cui le piattaforme social sono tendenzialmente il primo posto in cui i consumatori si recano per cercare informazioni sui prodotti: una ricerca di Absolutenet ha dimostrato che l’87% dei clienti di eCommerce affermano che i social media, visti come fonte imparziale, li aiutino a decidere cosa acquistare. La ricerca di Vernuccio, Latorre e Pastore parla di “socializzazione del processo d’acquisto online”, evidenziando come il Social Commerce permetta di trasformare l’acquisto in un’esperienza d’interazione tra consumatori online, “ricreando quei meccanismi di aggregazione sociale nello shopping tipici del mondo reale e che mancavano nell’e-commerce di tipo tradizionale”. Secondo gli esperti da loro consultati, la socializzazione tra gli utenti può avere luogo in tutte le fasi del processo d’acquisto, dalla “social discovery” al “supporto sociale nella ricerca delle informazioni/valutazione delle alternative/scelta”, fino al “supporto sociale nella valutazione post-acquisto”.

In questo senso, il Social Commerce accorcia le distanze fra l’utente e la conversione, ma anche fra cliente e brand. Il fatto di poter interagire direttamente con il marchio, esprimendo direttamente le proprie opinioni, permette ai clienti di instaurare un rapporto di intimità e fiducia con l’azienda.
Inoltre, vendendo direttamente sui social network, è possibile introdurre un sistema di customer care mirato: con l’ausilio di chatbot, l’esperienza fornita al cliente potrà essere anch’essa integrata nel flusso ininterrotto fra acquisizione delle informazioni, acquisto e assistenza.

Vantaggi per le aziende

Attraverso la loro ricerca, Maria Vernuccio, Annaluce Latorre e Alberto Pastore hanno individuato i cinque principali vantaggi che le imprese italiane attribuiscono al Social Commerce:

1) word of mouth: la prima opportunità percepita dagli esperti è la possibilità di attivare flussi virtuosi di passaparola, in modo integrato tra online e offline, attraverso le tipiche funzionalità dei social. Non solo per mezzo dei meccanismi di condivisione, ma anche attraverso il contributo originale degli utenti in termini di user-generated content (UGC), anche sotto forma di semplici recensioni.
2) consumer insight: I social media consentono alle imprese di ottenere informazioni sulle opinioni, i desideri e gli stili di vita dei consumatori e questa può essere la base non sono per una profilazione più accurata degli utenti, ma anche per una continua innovazione dei prodotti e dei servizi offerti sulla base del monitoraggio delle discussioni e dei contenuti condivisi su queste piattaforme, che potranno rivelare eventuali criticità nella fruizione, nonché nuove occasioni d’uso.
3) opportunità di personalizzazione: secondo gli esperti, il Social Commerce consente alle imprese di personalizzare l’offerta. Questa fondamentale opportunità dipende sia dalla migliore profilazione dei propri clienti, sia dalle caratteristiche interattive proprie delle piattaforme di Social Commerce.
4) opportunità di branding: la ricerca sostiene che le piattaforme di Social Commerce migliorino i risultati di marca in termini di brand awareness, brand engagement e brand loyalty, offrendo un luogo privilegiato per la gestione della brand reputation attraverso il monitoraggio delle conversazioni degli utenti. Inoltre, le funzionalità dei social favoriscono la generazione del passaparola, uno degli strumenti più utili per accrescere la notorietà della marca, mentre le piattaforme di Social Commerce consentono alle imprese di conoscere meglio e dialogare con i propri clienti, stimolandone il coinvolgimento e dunque l’acquisto e/o il passaparola.
5) opportunità economiche: gli esperti ritengono che il Social Commerce determini per le imprese due principali vantaggi di carattere economico, ovvero la possibilità di aumentare il fatturato grazie alla personalizzazione della value proposition e al word of mouth, e di ridurre i costi per le ricerche di marketing grazie all’opportunità di ascoltare direttamente la “voce del consumatore”, osservandone il comportamento d’acquisto.

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Capire l’algoritmo di Instagram per valorizzare i tuoi contenuti

25 Gennaio 2022

“È colpa dell’algoritmo”. Quante volte lo sentiamo dire, quando un post di Instagram non raggiunge i risultati sperati?
Anziché considerare l’algoritmo come l’origine di tutti i mali del mondo social, impariamo a conoscerlo per capire come valorizzare ogni post, storia o reel che pubblichiamo su Instagram.

Come funziona l’algoritmo di Instagram

Ogni volta che apriamo l’app, l’algoritmo esamina automaticamente tutti i contenuti disponibili e decide:
Quali post verranno visualizzati nel newsfeed e in quale ordine;
Quali post verranno visualizzati nella sezione Esplora;
In quale ordine verranno visualizzate storie, video in diretta, reels e video di IGTV, nel feed e nelle rispettive sezioni.

Su cosa si basa questa gerarchia di contenuti?
Semplice: sul comportamento degli utenti.
Lo scopo principale dell’algoritmo è proprio quello di far sì che ogni utente visualizzi i contenuti che possa trovare più interessanti.
Sulla base di quest’assunto, possiamo elencare i principali fattori che vengono presi in considerazione nel ranking.

Interazione

Più l’utente interagisce con il nostro profilo Instagram, maggiori saranno le probabilità che visualizzi i nostri contenuti.
L’algoritmo sembra prendere in considerazione diversi fattori, fra cui il fatto che due profili si seguano o meno a vicenda, che si tagghino o che si inviino messaggi privati e commentino i rispettivi post.

L’interazione va presa in considerazione anche in relazione alla tipologia di contenuto: ad esempio, l’algoritmo mostrerà i nostri video per primi agli utenti che sono più portati ad interagire con i video in generale. Lo stesso avviene per foto e caroselli. Non dimentichiamo la tematica delle pubblicazioni, sancita dagli hashtag: gli utenti che sono abituati a interagire con post simili ai nostri potranno più facilmente visualizzare un nostro contenuto nella sezione Esplora.

Tempistiche di pubblicazione

Anche se Instagram ha accantonato il rigido ordine cronologico che caratterizzava il feed nei primi anni di vita del social, il fattore timing ha ancora una sua importanza: una nuova pubblicazione sarà tendenzialmente più avvantaggiata rispetto ad una più datata. Le persone trascorrono in media 30 minuti al giorno su Instagram e l’algoritmo vuole offrire loro contenuti recenti, oltre che pertinenti, quindi può ancora avere senso prendere in considerazione gli orari in cui il maggior numero di utenti risulta attivo, osservando il comportamento del proprio pubblico e analizzando i benchmark del settore di riferimento.

Frequenza di utilizzo, tempo della sessione, following

Naturalmente, avremo più possibilità di comparire nel feed di utenti che entrino di frequente su Instagram, che passino molto tempo sulla piattaforma, e che non seguano molti altri profili.

Consigli e buone pratiche

Partiamo dai consigli base.
Ecco forse il più banale: è bene postare spesso e con regolarità.
A giugno di quest’anno, il CEO di Instagram Adam Mosseri ha rivelato che l’ideale sarebbe pubblicare due post a settimana e due storie al giorno. Ovviamente devono essere contenuti di qualità, adatti per il proprio target. Per stimolare l’interazione si può incoraggiare gli utenti a commentare sotto ai post o a rispondere via DM oppure, nel caso delle storie, si possono sfruttare gli sticker, che permettono di fare sondaggi, domande dirette e altro.
Passiamo ora a consigli più specifici:

1. Sfruttare i post-carosello

I post che contengono più di un’immagine (da due fino a un massimo di dieci) risultano particolarmente efficaci perché il semplice fatto che l’utente decida di scorrere per visualizzare le diverse “slide” conta come interazione. Analizzando i dati di Social Insider, notiamo come i caroselli registrino un livello di engagement rate del 1.94%, superando sia le immagini singole (1.74%) che i video (1.45%).

2. Sperimentare con i Reels

Il nuovo algoritmo favorisce particolarmente i Reels: non è un mistero, d’altronde, che Instagram stia cercando di battere TikTok sul suo stesso campo. Secondo un esperimento condotto da Hootsuite, i Reels ottengono il 67% di engagement in più rispetto ai video normali, contribuendo ad aumentare il tasso di crescita dei follower.
Per ottenere una performance migliore, Instagram suggerisce di filmare in formato verticale, di utilizzare effetti nativi della piattaforma (filtri, musica, stickers, etc) e di non riciclare i video di TikTok con la filigrana.

3. Utilizzare correttamente gli hashtag

Arriviamo ad una delle questioni più discusse: il numero di hashtag da utilizzare.
Uno studio di SocialBakers ha dimostrato che i post con uno o due hashtag raggiungono un livello di interazione superiore rispetto ai contenuti senza hashtag o con più di tre hashtag.
La cosa più importante, comunque, è utilizzare hashtag mirati, coerenti con il contenuto del post e con il settore in cui il brand opera.

4. Interagire direttamente con il pubblico

Uno studio condotto da Hootsuite e We Are Social ha rivelato che il tasso di coinvolgimento medio su Instagram per gli account aziendali è dello 0,85%: un risultato insoddisfacente, se pensiamo che un buon livello di interazione dovrebbe aggirarsi fra l’1% e il 5%.
Un buon metodo per migliorare questa percentuale è quello di interagire con gli utenti rispondendo a commenti e messaggi privati (che contano molto più di un like) e utilizzando strategicamente gli UGC (ricondividendo le storie in cui si è taggati, ad esempio).

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Co-branding, le collaborazioni che non ti aspetti

25 Gennaio 2022

Co-branding: in poche parole, due mondi che si incontrano (e qualche volta si scontrano).
Cosa porta due brand ad intrecciare i loro rispettivi pubblici e universi valoriali?
Scopriamo insieme le caratteristiche, i vantaggi e le opportunità del co-branding, citando alcune delle collaborazioni più inaspettate.

Osare, ma con cognizione di causa

Collaborare con un altro brand è un’arma a doppio taglio: ampliamo il nostro universo di valori, conquistando una nuova fetta di pubblico, ma rischiamo di mettere in discussione la nostra stessa immagine agli occhi dei clienti. Purtroppo è così: se nella vita di tutti i giorni veniamo giudicati anche in base alle persone che frequentiamo, lo stesso vale per il co-branding.
Per questo motivo, la scelta va ben ponderata, ma osare con cognizione di causa può portare ai migliori risultati perché permette di aprire un nuovo orizzonte per il nostro brand.

Un rischio che premia entrambi

Lo sanno bene i marchi d’alta moda, che non perdono occasione di collaborare con brand di streetwear e sportswear, ma anche con catene d’abbigliamento low cost.
Abbiamo visto collaborazioni fra Versace e H&M, Nike e Dior, Supreme e Louis Vuitton. Questo tipo di partnership risulta vantaggiosa per entrambe le parti: lo streetwear, lo sportswear e il low cost acquistano un’aura di esclusività, mentre il luxury ottiene una “street cred”, avvicinandosi ora alle tendenze underground, ora alla vita delle persone comuni.

Uniti dagli stessi valori

Le partnership più interessanti sono quelle che uniscono marchi che operano in ambiti diversi, ma che trovano terreno comune sulla base di valori profondamente radicati in entrambi. Ad esempio, la collaborazione fra Fendi e la marca di pasta Rummo può risultare bizzarra solo a un primo sguardo: entrambe sposano i concetti di artigianalità e Made in Italy, quindi il connubio da un lato sorprende e dall’altro risulta completamente sensato, e quindi funziona.

Riflettere le abitudini della gente

Il successo della recente partnership fra Chiquita e Nutella si è basato su un abbinamento ideato e promosso dai clienti stessi: lo possono testimoniare le ricette che affollavano il web svariati anni prima che la collaborazione venisse annunciata. In questo caso, si può dire che il successo sia praticamente scontato: l’unione fra i due marchi non sorprende, ma risponde a un bisogno già insito nel cliente. Al contrario, è interessante notare come la partnership fra Philadelphia e Milka si sia rivelata un fiasco: sebbene gli italiani trovino sfiziosi i prodotti di entrambe le marche, l’associazione del formaggio con la cioccolata è risultata indigesta per la maggior parte dei clienti, tanto da evitare di assaggiarlo a priori. Anziché basarsi sul successo individuale dei due marchi, quindi, la partnership avrebbe dovuto prendere in considerazione le abitudini alimentari degli italiani, che difficilmente associano il formaggio con il dolce, a differenza dei francesi o di altri popoli europei.

Scorgere nuove opportunità

Una partnership può essere un’occasione per scardinare preconcetti che non trovano riscontro nell’effettiva osservazione del comportamento dei propri clienti, sperimentando nuove fasce di pubblico sulla base di dati che appaiono promettenti.
Ad esempio, avendo riscontrato un crescente interesse per Star Wars da parte di un pubblico di giovani donne, LucasFilm ha lanciato una linea di cosmetici in collaborazione con CoverGirl: la collaborazione si è rivelata un successo, smentendo le tesi dei fan di vecchia data, convinti che il fandom di Star Wars fosse quasi esclusivamente maschile.

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Video strategy: differenziare per differenziarsi

25 Gennaio 2022

Il video marketing non è solo questione di tecnica: la realizzazione di video di qualità dal punto di vista estetico e narrativo deve essere coniugata con la progettazione di un piano d’azione che possa determinare quale tipo di contenuto pubblicare e quanto spesso.

La strategia più semplice e conosciuta è quella delle 3H: è stata sviluppata da YouTube per le campagne video, ma si può estendere a tutto il content marketing. Si tratta di un modello di comunicazione rappresentato attraverso una piramide che mostra quali contenuti occupano base, corpo e punta di una video strategy.

Il piano si basa sulla differenziazione dell’offerta, rispondendo a diverse esigenze del pubblico attraverso tre tipologie di video:

  • Hero
  • Hub
  • Help

Hero

I video Hero sono progettati per essere condivisi: sono contenuti spettacolari e di grande impatto, caratterizzati da un forte carico emotivo.
Si pongono l’obiettivo di attirare l’attenzione, stupire ed entusiasmare.
Nella piramide occupano la sommità: raggiungono potenzialmente un pubblico più ampio degli altri contenuti, anche utenti che normalmente non verrebbero raggiunti dal brand, e vengono prodotti in quantità minore rispetto alle altre tipologie di video in quanto necessitano di una grande creatività e spesso un budget elevato, sia per la realizzazione che per la promozione. Inoltre, come tutti i contenuti ad alto impatto, vanno centellinati nel tempo per non stancare gli utenti, conservando il fascino del grande evento.
Ad esempio Epic Split di Volvo Trucks, ideato dall’agenzia svedese Forsman & Bodenfors, ha messo in luce le caratteristiche del prodotto giocando con l’ironia: il video è diventato virale, andando incontro a infinite parodie.

Hub

Se i video Hero rappresentano lo scatto dinamico che ci permette di acquisire nuovi follower, i contenuti Hub costituiscono una maratona volta a fidelizzare le persone che hanno deciso di seguirci, magari proprio dopo aver visto un contenuto Hero. Generalmente raggiungono meno utenti rispetto agli Hero e vengono pubblicati più spesso.
Il concetto chiave è la costanza: si tratta di contenuti che devono essere replicabili nel tempo, offrendo un giusto compromesso tra qualità, tempo di realizzazione e budget.
Si può fare utilizzo di format da declinare in appuntamenti predefiniti a cui gli utenti possono abituarsi, tornando regolarmente a interagire con i video del brand. L’obiettivo è quello di intrattenere e coinvolgere con contenuti che offrano un valore aggiunto e una finestra aperta sul brand, costruendo una relazione con gli utenti. Questa tipologia di video permette al marchio di far sentire in modo continuativo la sua presenza, affermando il proprio stile e tone of voice.

Un esempio, ideato per Volvo dall’agenzia svedese Spoon, è la serie Welcome To My Cab, che coinvolge i proprietari dei camion più particolari con uno stile registico e narrativo che ricorda i programmi di Real Time.

Help

I contenuti Help si trovano alla base della piramide, avendo un raggio di azione molto più ridotto rispetto ai contenuti Hero e Hub: si rivolgono ai clienti, effettivi e potenziali, dell’azienda. Non si tratta di nuovi utenti da raggiungere (Hero), né di follower da fidelizzare (Hub), ma di persone che hanno intenzione di acquistare e prima di farlo hanno bisogno di saperne di più sul brand. Lo scopo è quello di raccontare cosa fa l’azienda e chi ci lavora e/o di illustrare caratteristiche e benefici di prodotti e servizi, spesso sotto forma di tutorial.
Quando gli utenti si ritrovano a decidere se e cosa comprare, si basano sulla chiarezza delle informazioni presenti in rete e un video Help può essere un modo rapido ed efficace per rispondere ai loro dubbi fornendo spiegazioni e consigli.
Ad esempio, Volvo pubblica video in cui vari esperti spiegano, in modo coinvolgente, la tecnologia dietro ai prodotti dell’azienda.

Differenziare video e piattaforme

Come dicevamo, una buona video strategy si basa sulla differenziazione di contenuti: l’obiettivo è quello di costruire un piano editoriale equilibrato con video diversi che possano raggiungere pubblici diversi, rispondere a diverse esigenze e fornire diversi punti di vista sul brand.

La sinergia fra tutti questi elementi dà vita al funnel ideale:

  • Con i contenuti Hero attiriamo l’attenzione, intercettando utenti che si trovano al di fuori del nostro raggio d’azione;
  • Con i contenuti Hub accompagniamo e fidelizziamo il pubblico che ha deciso di seguirci;
  • Con i contenuti Help aiutiamo l’utente a saperne di più sul nostro brand, veicolandolo verso l’acquisto.

In questo contesto, è importante porre l’attenzione sulle diverse piattaforme social, che richiedono video di tipo diverso sulla base delle loro diverse caratteristiche.
Ad esempio, se su TikTok l’audio è fondamentale, in virtù della forte connessione fra immagini in movimento e musica/suoni che caratterizza la piattaforma, notiamo come i video di Facebook e di Instagram vengano visualizzati con l’audio disattivato nei loro primi tre secondi e oltre. Questi contenuti devono quindi essere corredati da caption e sottotitoli in modo da funzionare efficacemente anche a volume spento, e/o da indicatori grafici che segnalino all’utente di attivare l’audio. Fondamentale, inoltre, catturare l’attenzione proprio in quei tre secondi iniziali, anche grazie ad un’efficace immagine di copertina per chi scorge il video dal feed. Se su Facebook si tende a non esagerare con la lunghezza dei video, su Instagram ci sono diverse opzioni che permettono di diversificare le proposte. Sul feed si possono pubblicare video fino a 60 secondi, ma, con IGTV, è possibile condividere contenuti che superino tale durata (fino a 60 minuti): in questo secondo caso, saremo sicuri che gli utenti che cliccano sul video per vederne la prosecuzione risulteranno particolarmente attenti nella visione del contenuto, avendo superato la loro soglia d’attenzione minima. E poi ci sono le stories, in cui è la breve durata (15 secondi) a farla da padrone, come per i reels e per i video di TikTok. Se le stories è possibile pubblicarle in modo che si ritrovino ad essere l’una il proseguimento dell’altra, per i reels e per i video di TikTok è fondamentale che si tratti di contenuti autoconclusivi, o in alternativa è necessario incentivare l’utente a visionarne il seguito: una strategia utilizzata da molti tiktoker è proprio quella di terminare il contenuto con un cliff-hanger, un finale in sospeso che genera curiosità nello spettatore, impaziente di visionare la parte successiva, che verrà pubblicata in seguito (e questa è una strategia molto utilizzata dai creator per farsi seguire).

Vuoi coniugare tecnica e strategia nella produzione di video per il tuo brand? Contattaci!

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Sound branding: dal jingle alla playlist su Spotify

20 Ottobre 2021

Ogni suono porta con sé un bagaglio fatto di sensazioni e ricordi che bussano al nostro inconscio: per questo il sound branding può essere un elemento fondamentale per costruire la propria brand identity, veicolare i valori dell’azienda e farsi ricordare.
In che modo il suono può essere utilizzato per comunicare con i propri clienti? Scopriamolo insieme!

Cos’è il sound branding?

In pochissime parole, il sound branding è una strategia di marketing volta ad associare un elemento sonoro ad un brand.
Così come un logo rappresenta un brand dal lato visivo, un suono può caratterizzarlo dal punto di vista uditivo.

Sound branding: declinazioni e casi celebri

Da anni, sul web, proliferano meme che riportano testi di sigle famose di 20 o 30 anni fa con la didascalia “So che l’hai letta cantando” o che giocano con il concetto di “immagini che puoi sentire”, per cui alla componente visiva si ricollega immediatamente quella uditiva.
Questo succede con quei loghi che vengono sempre accompagnati da un suono ben preciso ogni volta che compaiono: in questi casi, immagine e suono diventano un tutt’uno, tanto che si parla di marchio sonoro o sound logo. Un esempio recente è Netflix: il suono che accompagna il suo logo si adatta perfettamente alla natura click and play della piattaforma. Ce ne accorgiamo se lo mettiamo in confronto con la trionfale orchestra del sound logo della 20th Century Fox, che immerge lo spettatore nella visione dei film rimandando ad atmosfere da cinema.

Nel caso di McDonald’s, invece, non si tratta solo di un suono o di una base strumentale, ma del payoff che viene messo in musica (“I’m lovin’ it”). In altri casi si gioca con suoni legati al brand/prodotto stesso: Coca Cola richiama alla freschezza della bibita con il rumore che fa il tappo quando viene aperta la bottiglia, mentre Visa ha elaborato il “suono della transazione” con l’obiettivo di evocare sicurezza al consumatore.

Poi ci sono i jingle degli spot, che possono ricollegarsi a singoli prodotti piuttosto che al brand in generale. Ci sono casi in cui i marchi non creano delle musiche ad hoc, ma si avvalgono di canzoni più o meno famose che si vanno ad intrecciare indissolubilmente con il brand nella mente del consumatore: questa è una strategia sempreverde che ha raggiunto uno dei suoi picchi massimi, in Italia, con gli spot Vodafone di inizio anni ‘00, in un’epoca in cui i tormentoni musicali cominciavano a diffondersi anche sotto forma di suonerie.

La più recente frontiera del sound branding è costituita dalle playlist dei brand su Spotify. Il caso più celebre è quello di Barilla, che ha creato diverse playlist musicali che fungono da timer per la cottura della pasta, con una durata che si adatta ai diversi formati. L’idea è nata in risposta al “movimento grandi minuti”, sorto sui social per invitare con ironia a migliorare la leggibilità dei minuti di cottura sui packaging della pasta.

Un altro recente esempio è quello di Lego: le playlist White Noise riproducono il suono dei mattoncini quando vengono montati l’uno con l’altro. Questo tipo di registrazioni risulta in linea con il trend ASMR (molto diffuso su YouTube), che predilige voci sussurrate e suoni pacati e gradevoli per evocare una sensazione di relax e piacere mentale. Barilla ha voluto giocare anche su questo: una loro pubblicità, pensata per Spotify, valorizza il suono del brodo che bolle in pentola.
Poi ci sono i brand che, per suscitare sensazioni e stati d’animo da ricollegare ai propri prodotti, creano playlist a tema.
Gucci, ad esempio, le utilizza per fornire un’identità sonora ai suoi prodotti, dai profumi (che hanno bisogno di emozioni forti per veicolare un valore che a distanza appare impalpabile) alle nuove collezioni.

In un mondo in cui i brand non sono più solo distributori di servizi o prodotti, ma anche di contenuti esperienziali, creare playlist per i propri clienti permette al marchio di avvicinarsi al consumatore, diventando parte della sua vita quotidiana, anche (e soprattutto) nel momento stesso in cui quest’ultimo interagisce con i prodotti, come nel caso delle playlist di Barilla.

Vantaggi del sound branding

Per quanto esista da sempre, il sound branding sta acquisendo sempre più rilevanza nel mondo della comunicazione.
Fra le ragioni dietro a questa tendenza, possiamo evidenziare:

  • l’overload di messaggi pubblicitari visivi che passano ormai inosservati;
  • l’incremento delle tecnologie voice e la crescente rilevanza della componente audio nella produzione di contenuti (podcast, etc);
  • lo sviluppo dell’holistic marketing, volto a stimolare tutti e 5 i sensi;
  • le conferme del neuromarketing in merito all’impatto del sound branding nell’esperienza del consumatore.

Quali sono, quindi, i vantaggi effettivi di questa strategia?
1. Il suono attira l’attenzione dei consumatori amplificando l’effetto dell’immagine o suscitando una reazione indipendentemente da questa.
2. È stato certificato che esiste un forte legame tra suono e memoria. Il suono funge dunque da fattore di brand recognition, permettendo ai marchi di farsi riconoscere e di farsi ricordare. In questo senso, il sound branding permette a un marchio di rafforzare e valorizzare la propria identità purché il suono risulti complementare a tutti gli altri elementi che la compongono: immagine, logo, tone of voice, etc. L’identità sonora deve sposarsi perfettamente con l’identità visiva, con la personalità, i valori e il target del brand.
3. Il suono suscita emozioni, evoca sensazioni e favorisce associazioni positive con il brand, veicolando agevolmente i suoi valori. Si tratta di una strategia poco invasiva che mette al centro di tutto il fattore esperienziale. Come dimostra il fenomeno noto in psicologia come “razionalizzazione post-hoc”, le decisioni prese dal nostro cervello sono guidate in prima istanza dalle emozioni: solo successivamente cerchiamo di giustificare le nostre scelte, razionalizzandole. Ecco perché è fondamentale fare leva sull’emozione per guidare la decisione di acquisto del consumatore: in questo contesto, il suono risulta essere un elemento chiave per la comunicazione del marchio.

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Filed Under: Campagne Marketing

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