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Internet & New Media

Da Prime Video a Disney+, lo streaming viene prima di tutto

4 Giugno 2021

Risale a qualche giorno fa la notizia dell’acquisizione, da parte di Amazon, della MGM (Metro Goldwin Mayer), culla del cinema da quasi un secolo.
Fra i titoli nati sotto la sua ala, ricordiamo grandi classici come Il silenzio degli innocenti, 2001: Odissea nello spazio, Cantando sotto la pioggia, Rocky, La rivincita delle bionde, Robocop, 007.
Al costo di 8,45 miliardi di dollari, l’infinita library di film e serie tv del colosso del cinema costituisce, per Amazon, la seconda più grande acquisizione dopo quella di Whole Foods nel 2017.
“Il vero valore finanziario di questo accordo è il tesoro di proprietà intellettuale del catalogo”, afferma Mike Hopkins, senior vice presidente di Prime Video e Amazon Studios, constatando l’ovvio.

L’aspetto più interessante della vicenda ha a che fare con l’utilizzo che verrà fatto dello sterminato catalogo MGM e con le sue conseguenze, già riscontrabili sul mondo dei media e dell’intrattenimento in generale. Nell’era dello streaming, si sta sfaldando il ciclo che, storicamente, portava un film prima in sala, poi nell’home video, nella pay tv e infine sulla televisione in chiaro, alla portata di tutti.

L’abbiamo visto lo scorso anno con la Disney che, forte del successo della sua Disney+, ha concesso ben pochi titoli per il classico palinsesto natalizio della Rai.
Allo stesso modo, è chiaro che l’interesse di Amazon nella MGM sia volto a rimpinguare la sua piattaforma streaming, Prime Video, di nuovi contenuti.

A perderci, come dicevamo, è soprattutto la televisione: la stessa Disney, negli anni, è stata tendenzialmente restìa a dare in pasto al tubo catodico i suoi più grandi classici (la prima visione Rai di Biancaneve, ad esempio, risale ad appena 10 anni fa), temendo che i passaggi televisivi svalutassero i suoi contenuti.

Sembrava, invece, che la sala cinematografica conservasse il suo prestigio agli occhi della major. Adesso, però, il futuro sembra essere più incerto: la company ha deciso di affidare a Disney+ la première del film Pixar Luca, che non passerà dalle sale cinematografiche neanche dove possibile (in Italia, ad esempio, i cinema sono attualmente aperti). La pandemia, quindi, c’entra solo fino a un certo punto, o meglio: sembra aver legittimato strategie che erano già “nell’aria”.
La giustificazione dietro alla scelta, infatti, prescinde dalle limitazioni dovute al COVID: come dichiarato dalla Disney, Luca andrà direttamente su Disney+ per sopperire alla mancanza di contenuti originali sulla piattaforma, ma soprattutto perché il lancio del precedente Soul direttamente in streaming, lo scorso Natale, era stato un grande successo, portando a un boom di iscrizioni.

Lo streaming viene prima di tutto, quindi: “Data l’importanza della piattaforma per noi, per il mercato e per i nostri investitori, vogliamo essere sicuri di avere sempre contenuti per alimentare la macchina”, dichiara il CEO Bob Chapek.
Poco importa, agli occhi della major, che un gruppo di animatori Pixar si sia lamentato, in forma anonima, ai microfoni di Insider: “Non vogliamo essere soltanto un contenuto di Disney+, questi film sono prodotti per il grande schermo e vogliamo che il pubblico li guardi senza distrazioni, non mentre sta al telefono”.
Per la Disney, invece, un canale vale l’altro: a ottobre dello scorso anno, l’azienda ha creato una nuova divisione dedicata interamente alla pianificazione della distribuzione. Questo significa che, d’ora in poi, gli studi Disney non realizzeranno più film per un canale specifico, ma si limiteranno a realizzare “contenuti”. Sarà la nuova divisione a scegliere, a seconda del contenuto, il canale più adatto fra sala cinematografica, televisione e streaming. La certezza è solo una: prima o poi, il contenuto approderà su Disney+.

Se ad avere l’ultima parola è sempre lo streaming, ribadiamo nuovamente come il confronto fra cinema e televisione veda in svantaggio quest’ultima. Questo perché il cinema “battezza” un film, poi lo lascia andare (salvo eventuali, e ormai rarissimi, ritorni in sala), mentre la televisione giovava del fatto di essere il medium alla fine del ciclo, quello in cui film non più nuovissimi trovavano spazio e riconoscimento, come anziani in un ospizio. L’abbiamo visto con grandi classici come Pretty Woman e Titanic: vengono trasmessi ininterrottamente da più di vent’anni, eppure ogni volta registrano ascolti incredibili. Cosa ancora più rilevante: fanno parlare tutti, tanto che sui social fioccano puntualmente meme a tema.

In questo, la forza democratica della televisione in chiaro sembrava imbattuta… almeno fino a qualche mese fa, quando la stessa Amazon ha lanciato LOL – Chi ride è fuori, primo programma in streaming che ha generato un numero di meme pari a quella di programmi e film trasmessi in chiaro. Il risultato, naturalmente, non si è misurato in indici di ascolto, ma in numero di iscrizioni alla piattaforma, ma la lezione che la televisione dovrebbe far propria è chiara: realizzare più contenuti originali.
Pensiamo a Netflix, che in pochi anni si è vista circondata da numerosi concorrenti, anche molto potenti, che le hanno sottratto serie e film: la sua strategia è stata quella di cominciare a produrre contenuti per la propria piattaforma, oltre a chiederli in prestito ad altri. E così, da qualche anno a questa parte, Netflix tende a promuovere soprattutto le sue produzioni originali, film e serie tv che potranno sempre far parte del suo catalogo. Chi contrappone il palinsesto televisivo all’offerta delle piattaforme streaming non ha completamente ragione: il catalogo della singola piattaforma non è infinito, soprattutto ora che il mercato si è popolato di competitors che tendono a “rubarsi” contenuti a vicenda, e quello che ci viene presentato sulla pagina principale è un mix fra i nostri gusti personali (ricavati dalle nostre precedenti visioni), le tendenze del momento e, soprattutto, i prodotti su cui la piattaforma vuole puntare, anche se la scelta rimane nelle mani di chi guarda, grazie a un click che ha più potere di un telecomando.

La più grande differenza con la televisione sta nel fatto che le piattaforme streaming non incentivano una visione collettiva in tempo reale: a decretare il successo di LOL su Amazon, ad esempio, sono state persone che l’hanno visto in giorni e orari diversi, nell’arco di un paio di settimane.
Al contrario, quando trasmettono Titanic su Canale 5 è fondamentale il “qui ed ora”: i primi meme cominciano a fare capolino con qualche ora di anticipo, ma risultano completamente morti la mattina dopo la trasmissione. Il fenomeno dura giusto il tempo in cui il film è in onda, poi non se ne parla più fino alla prossima replica.
E così, se le reti televisive cesseranno di trasmettere film di terzi, la perdita non starà solo nel fatto di non poterli vedere gratuitamente, ma nel fatto che venga a mancare quella convivialità che caratterizza social e vita reale nel momento in cui una rete televisiva trasmette un film di oltre vent’anni fa e con gli amici commenti: “Quasi quasi me lo rivedo”.

La percezione è che la televisione ci vada a perdere, ma anche il cinema, slegato dalle sale cinematografiche e dalle novità del momento: i grandi classici saranno ricordati come tali senza l’ausilio di un mezzo, quello televisivo, che – a svariati decenni dalla loro uscita – ne permette (e quasi ne impone) la visione a un pubblico il più ampio possibile, scolpendone l’immagine, replica dopo replica, nella coscienza collettiva?

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Filed Under: Internet & New Media, Life, News

Creatività dinamiche interattive, il caso McDrive di McDonald’s

15 Settembre 2020

Creatività Dinamiche, cosa sono

Per Dynamic Creative Optimization+ (DCO+), in italiano Ottimizzazione delle Creatività Dinamiche, si intende la personalizzazione di annunci pubblicitari in base ai dati dell’utente.

Le informazioni dinamiche vengono compilate in tempo reale: si tratta ad esempio delle parole del testo, dei colori, delle dimensioni e del posizionamento degli elementi grafici, che cambiano a seconda dell’utente.
Tale personalizzazione è possibile grazie alla raccolta di dati, fra le risorse più competitive del mercato attuale, e alla tecnologia machine learning, che permette agli annunci di cambiare continuamente a seconda delle preferenze e della cronologia di navigazione di ogni singolo utente.

Il segreto sta nel mostrare il messaggio giusto alla persona giusta nel momento e nel luogo giusto, favorendo la conversione senza compromettere l’ampiezza del target raggiungibile.

Creatività Dinamiche, il caso McDrive

A sfruttare i benefici delle Creatività Dinamiche Interattive sono Connected-Stories, OMD e Leo Burnett Company, che lanciano la prima campagna video interattiva di McDonald’s, di cui potete visualizzare una preview a questo indirizzo.

Si tratta di una serie di formati dinamici e personalizzati, in grado di mostrare – a lato del video – alcune delle offerte disponibili, scelte sulla base del comportamento dell’utente e dell’audience di cui fa parte.


SIKS-ADV-Creatività dinamiche interattive-mcdrive-omd

Inoltre, ogni utente ha la possibilità, grazie a una mappa interattiva, di visualizzare il McDrive più vicino rispetto alla propria geolocalizzazione.


SIKS-ADV-Creatività dinamiche interattiv-McDrive3

Con la campagna McDrive, l’azienda dimostra di saper rispondere alle esigenze del pubblico online, che esige una user experience fluida, coinvolgente, personalizzata e interattiva.

Inoltre, la tipologia di campagna permette di monitorare in modo granulare le performance di ogni singola creatività, raccogliendo preziosi insights sull’audience e sul comportamento degli utenti al fine di ottimizzare non solo l’aspetto creativo, ma anche la strategia di investimento lato DV360.

Il caso preso in considerazione apre a possibilità di targeting finora mai sfruttate appieno, soprattutto in Italia, permettendoci di avere un quadro delle strategie da percorrere e sviluppare nei prossimi mesi, e nei prossimi anni.


SIKS-ADV-Creatività dinamiche interattiv-McDrive2

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Filed Under: Advertising, Campagne Marketing, Internet & New Media, Social Media

Coronavirus e Infodemia. I Social Media contro le Fake News

12 Marzo 2020

In piena crisi, gli italiani si rivolgono ai social network per notizie, informazioni e rassicurazioni.

Oltre all’epidemia da Coronavirus, si rischia quella che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha definito ”infodemia”, la diffusione di notizie false e informazioni errate e contraddittorie che da un lato portano a sottovalutare il problema e dall’altro a ingigantirlo.

Il monito è elementare quanto necessario, come chiedere agli italiani di lavarsi le mani: prima di condividere una notizia, verificarne la fonte e l’attendibilità.

Il problema sta proprio nel fatto che, al tempo dei social, la comunicazione d’emergenza non è in mano solo alle istituzioni, al personale medico e ai media, ma agli utenti stessi. Considerato che la gente è più propensa ad ascoltare persone comuni piuttosto che medici e istituzioni, questo può essere una grande risorsa o un grande pericolo.

In Cina, il contributo degli utenti sui social si è rivelato fondamentale per sfuggire alla “censura” del governo, informando il resto del mondo dell’epidemia in corso.
In Italia assistiamo da un lato a meme che “ridicolizzano” comportamenti sbagliati, dall’altro al proliferare di assurde cospirazioni e alla glorificazione di esempi negativi, come quelli costituiti da influencer come Victoria Tei e Soleil Sorge, che affermano pubblicamente di contravvenire alle indicazioni del Governo, contribuendo a diffondere ignoranza sull’argomento.

A dare il buon esempio, invece, gli influencer e i personaggi del mondo dello spettacolo che hanno utilizzato l’hashtag #IoRestoACasa per sensibilizzare gli italiani in merito alla necessità di uscire il meno possibile per evitare il contagio.
L’hashtag è stato prontamente ripreso dal Ministero della Salute e dalla Protezione Civile.

In questo contesto, le istituzioni italiane stanno dimostrando di essere all’altezza della situazione, con una comunicazione chiara e accessibile a tutti, in grado di puntare sull’enorme potenziale di “condivisibilità” dei contenuti sui social network.

Per giungere a questo traguardo, però, ci sono voluti un po’ di anni e, come spesso accade, gli utenti hanno anticipato le istituzioni.
La necessità di una comunicazione d’emergenza che passasse prima di tutto sui social network ha cominciato a delinearsi nel 2012, con il terremoto nel Centro Italia. L’evento è stato uno dei primi disastri naturali in cui le informazioni utili alla gestione dell’emergenza sono circolate grazie ai social, in particolare Twitter. Pochissime le istituzioni attive in quel contesto, scarsa la presenza dei profili di Protezione Civile Nazionale e Locale. L’impegno degli utenti si era quindi rivelato fondamentale.

Otto anni più tardi, in piena emergenza Coronavirus, le istituzioni sono riuscite a comprendere quanto l’intraprendenza divulgativa degli utenti debba essere canalizzata e organizzata, cercando di sfruttare al meglio il potenziale della comunicazione social.

In prima linea c’è naturalmente il Ministero della Salute, che dedica una sezione del suo sito a coloratissime infografiche pronte per essere condivise sui social. Inoltre, sono stati presi accordi con Facebook e Twitter per far sì che gli utenti che cercano informazioni sul Coronavirus possano essere immediatamente ricondotti alle fonti istituzionali.

Firmati anche accordi con Google e YouTube per far sì che le informazioni del Ministero della Salute (oltre che dell’OMS e della World Health Organization) compaiano fra i primi risultati di ricerca.

I social hanno preso anche importanti decisioni di loro iniziativa: Facebook sta cercando di limitare il proliferare di notizie false e fuorvianti sul Coronavirus e impedisce la sponsorizzazione di annunci che sfruttano l’emergenza a scopo di lucro, offrendo invece spazi pubblicitari gratuiti all’Oms.

A sorpresa interviene anche TikTok, il social dei giovanissimi: agli utenti che creano, visualizzano e interagiscono con contenuti correlati al Coronavirus, l’app presenta un avviso che, per dubbi o informazioni, invita a rivolgersi alle istituzioni internazionali o locali.
Inoltre, TikTok cerca di rimuovere video fuorvianti o inappropriati sull’argomento, affermando di non poter permettere “una disinformazione che potrebbe causare danni alla nostra comunità”, considerata anche la giovane età dei suoi membri.

Insomma, le piattaforme social si dimostrano in questo contesto perfette alleate delle istituzioni, dando una lezione agli organi di stampa (che stanno virando troppo spesso verso il sensazionalismo), e anche al Governo e alle Regioni, che si sono fatti scappare qualche passo falso.
La soluzione migliore, per il bene dei cittadini, sarebbe che tutti questi soggetti facessero fronte comune, fornendo sempre informazioni coerenti ed equilibrate.

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Assistenti vocali, fra multitasking e SEO vocale

26 Febbraio 2020

“Ok, Google. Come posiziono il mio sito nella SERP ora che tutti fanno ricerche vocali?”.
La situazione è quasi paradossale: usiamo sempre più spesso gli assistenti vocali, soprattutto sul cellulare, ma non ne sappiamo ancora abbastanza.
Che la parola d’ordine sia “Hey Siri!”, un più caustico “Alexa” o il celeberrimo “Ok Google”, la funzione di comando e ricerca vocale è decisamente un trend da non sottovalutare, i cui concetti di base – il multitasking, l’interattività – sono in grado di influenzare la SEO e anche il content marketing.
Ma andiamo con ordine.

Il motivo del successo

Secondo Comcast, un possessore di smartphone su due utilizza questa tecnologia e uno su tre la utilizza quotidianamente.
Ma perché viene utilizzata?
Beh, principalmente perché è comoda. È un po’ la stessa logica dietro all’utilizzo dei messaggi vocali: parlare è molto più semplice e veloce rispetto a scrivere. Soprattutto mentre si sta facendo qualcos’altro, ad esempio mentre si guida o si cammina per strada.
Non a caso, il comando più gettonato è la richiesta di indicazioni stradali, seguita dalle chiamate e dai messaggi. Poi ci sono le ricerche di informazioni, che ci portano a parlare non più solo di “comando vocale”, ma di “ricerca vocale”, in grado di impattare sulla SEO.

Ricerche vocali e SEO

Un dato uscito sul web qualche anno fa, poi smentito, profetizzava che, entro il 2020, il 50% delle ricerche sarebbero state vocali.
Ad oggi, le ricerche vocali costituiscono il 20% delle ricerche totali su Google, e possiedono caratteristiche proprie e relativi accorgimenti da adottare in ottica SEO. Come abbiamo già spiegato, l’utente che fa ricerche vocali vuole risparmiare tempo. Di conseguenza, consulterà ancora meno risultati rispetto a chi effettua una ricerca testuale.
Per un sito risulta quindi decisamente importante apparire alla “posizione zero”, quella del “featured snippet” che Google inserisce nella parte superiore della pagina dei risultati di ricerca. È importante, poi, che il testo risponda alla domande che gli utenti pongono agli assistenti virtuali, precedute solitamente dai pronomi “chi”, “cosa”, “come”, “dove” e “perché”.
Le query non si limitano quindi alle parole chiave, ma diventano più lunghe, complesse e colloquiali.
Non a caso, nel 2019 Google ha introdotto BERT, l’algoritmo di ricerca in grado di comprendere i processi del linguaggio naturale (Natural Language Processing), ad esempio il significato di una parola all’interno di un contesto. Quest’innovazione premierà ancor più i contenuti che utilizzeranno un linguaggio naturale e che si riveleranno essere di valore per gli utenti.

La voce nel marketing

Secondo una ricerca di Adobe, gli utenti vorrebbero che gli assistenti virtuali fossero presenti su più dispositivi e che, tramite questi, fosse possibile effettuare anche azioni più complesse.
Insomma, il pubblico sembra aver recepito bene la presenza degli assistenti virtuali e auspica un loro maggiore utilizzo in futuro: perché non approfittarne, quindi? Attraverso gli assistenti vocali è possibile creare annunci vocali interattivi e personalizzati grazie alle informazioni acquisite dall’utente.
Gli assistenti vocali infatti raccolgono e rielaborano i dati del consumatore, prendendo in analisi le sue ricerche precedenti, la localizzazione, il dispositivo che sta usando, etc.
Nasce però il problema della privacy, che costituisce ad oggi uno dei principali ostacoli alla diffusione degli assistenti virtuali.
Infine, il principio che ha determinato il successo della ricerca vocale, ovvero il concetto di multitasking, si adatta bene anche all’ascolto: sempre più consumatori si ritrovano ad ascoltare podcast on demand, e questa è un’altra opportunità da sfruttare per le aziende.
Fornire un contenuto di valore ai consumatori, di cui poter usufruire quando desiderano (mentre guidano, fanno le faccende di casa, durante l’attività fisica, mentre viaggiano, etc), permette sorprendentemente un alto grado di coinvolgimento emotivo, coadiuvato anche dal tono della voce, in questo caso non “virtuale”.

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Google Discover: la nuova app di Mr. G. sbarca in Italia

19 Giugno 2019

Google è un portento nel semplificare la vita, grazie alle sue app utili nell’organizzazione del tempo, delle attività – le famose task – e grazie anche a strumenti in grado di selezionare argomenti e notizie dai vari feed del web, non solo evitando di incappare nei depistaggi delle fake news (a proposito, hai letto il nostro articolo sul tema?) ma calibrando al meglio la tipologia del flusso informativo per una proposta di temi realmente in target con i nostri gusti, le nostre ricerche, le nostre necessità. E Google Discover è nato proprio per questo!

Google Discover: basta uno “swipe” per accedere!

Stanchi del solito feed? Google Discover lo sostituisce, anzi, apporta molto di più. Basta infatti fare “swipe” verso destra – nella schermata del tablet o dello smartphone con sistema operativo Android – dalla home di Google, e il gioco è fatto: si aprirà un feed personalizzabile, dove si potranno inserire gli interessi più in linea con noi, le nostre giornate, le nostre necessità. Infatti, i “tre pallini” presenti in alto, sulla destra, apriranno una funzione denominata “personalizza”: qui si potranno seguire tantissimi “argomenti” – ovvero i “topic” della versione anglosassone -, creando così una sorta di routine informativa che rappresenta un reale aiuto nella vita quotidiana.

Google Discover sembra fatto per la quotidianità:

Le nostre mattine sono davvero movimentate. Il tempo di un caffè e stiamo già aprendo le mail, controllando il tragitto da compiere, sbirciando alla task list delle cose da fare durante la giornata, cercando di ricordarci appuntamenti e riunioni. Google Discover viene in soccorso di ogni inguaribile persona multitasking: personalizzando l’app, infatti, possiamo scegliere di ottenere aggiornamenti in tempo reale sul meteo, sul livello di traffico, sulle news di politica, tech, economia, moda, il tutto tramite notifiche che arrivano da Google o dalle fonti autrici del contenuto, suddiviso in folder come “news”, “promemoria” o “tragitto giornaliero”. Mica male!

Google Discover e l’assistente virtuale:

Effettivamente, rimuginandoci un po’ su, viene da chiedersi per quale motivo Google abbia lanciato questa release nel 2018 in America, e solo nel 2019 in Italia , dal momento che Discover ha un funzionamento basato su feed, estremamente semplice e intuitivo.
Per farsi perdonare, però, Mr. G. ha collegato l’app all’assistente virtuale.
Infatti, Google Assistant – il grillo parlante di Google che, volendo, è persino in grado di prenotare un ristorante! – e scaricabile attraverso Google Home crea, interagendo con Discover, un’affidabile routine quotidiana: facendo “tap” su “aggiungi”, contraddistinto dal simbolo “+”, troverai il campo “il mio assistente…” e lì basterà aggiungere comando – un’azione, come la sveglia per esempio –  e l’orario di esecuzione. Non solo: puoi aggiungere anche contenuti multimediali come musica. Perfetto, quindi, per riprodurre la tua playlist preferita!

Google Discover è conversazione umana:

Discover può ottimizzare i contenuti? E – soprattutto – questi contenuti che io scelgo, possono divenire utili anche agli altri, in un meccanismo di hub? A questo risponde la guida di Search Console: “Il ranking dei contenuti in Discover dipende da un algoritmo che gestisce ciò che secondo Google un determinato utente potrebbe ritenere più interessante. Il ranking dei contenuti considera la corrispondenza tra i contenuti di un articolo e un argomento di interesse indicato dall’utente, pertanto non ci sono metodi che consentono di migliorare il ranking delle tue pagine, se non quello di pubblicare contenuti che ritieni possano interessare agli utenti.”

Quindi, un funzionamento human-friendly che si basa sull’informazione utile e tracciabile, rispettando le normative di Google News, e che ci permetterà di essere utili agli altri utenti dell’app all’insegna di comportamenti che premiano la qualità e l’ottimizzazione, non solo delle nostre giornate, ma del mondo web, sempre più votato a contenuti che rispondano alle necessità e ai bisogni delle persone.

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Kids influencer e kids digital advertising: un fenomeno in crescita

2 Maggio 2019

YouTubers: ve li ricordate? Ne abbiamo parlato, nei mesi scorsi, in questo post: giovani, famosissimi, a livello internazionale, che tutto sanno e tutto conoscono di beauty, di gaming, di web series e, per questo motivo, sono specchietti per le allodole davvero irresistibili per ogni big brand che si rispetti, tanto da finire sulle pagine di Forbes per introiti e traffico.

Oggi, proviamo ad alzare l’asticella e guardiamo alla nascita di un nuovo fenomeno che ruota sempre attorno l’universo digital advertising: stiamo parlando dei cosiddetti Kids Influencer; ovvero bambini – giovanissimi, spesso in età da scuola primaria – che recensiscono prodotti perfetti per la loro età, come giocattoli, vestiti principeschi e videogames, guidati da mamma e papà nel mondo dell’influencer marketing, facendo faville tra post di Instagram.
E poco importano le limitazioni imposte dai social per quanto riguarda l’accesso alle piattaforme da parte dei minori di 14 anni.

La generazione “Alpha”

Dopo i millenials e la “Z generation” ecco che arriva la “Generazione Alpha”: un nome che lascia poco all’immaginazione. Infatti, con “Generation Alpha si sottendono i bambini nati, e che nasceranno, dal 2010 al 2025: ovvero, la prima generazione totalmente appartenente al 21° secolo. Figli dei Millennials, la Generation Alpha utilizza smartphone e tablet in modo totalmente naturale, perché sono nati insieme a iPhone, iPad e varie applicazioni, e stanno crescendo con la voce – familiare quanto quella di un nonno – di Siri, di Alexa e di Google: per il mondo degli Alpha, infatti, interagire con l’Intelligenza Artificiale e gli assistenti vocali è, semplicemente, naturale. Così come è naturale per loro preferire YouTube Kids alla semplice vecchia TV.

Il quadro tracciato dal Kids Digital Advertising Report

Il mercato pubblicitario non può dunque ignorare la naturale evoluzione delle generazioni, così come non può ignorare l’incredibile opportunità che la generazione Alpha costituisce: e, proprio da questo postulato, parte l’approfondita analisi del Kids Digital Advertising Report, pubblicato alla fine del 2017, dall’agenzia PWC.CO.UK.
Cosa ci racconta questo survey? Eccone un breve sunto:

  • La pubblicità per bambini sotto i 13 anni è una pratica sempre più regolamentata negli Stati Uniti e in Europa: e sono sempre di più i brand dedicati ai più piccoli che mirano a raggiungere, con differenti tecniche di advertising, i “luoghi” del web in cui questi ultimi passano buona parte del loro tempo online.
  • Il report stima, inoltre, che il mercato del kids digital advertising potrebbe raggiungere circa  1,2 miliardi di dollari entro la fine del 2019, supportato dai trend di consumo, dai media dedicati ai più piccini, e dalle intenzioni dei brand di crescere digitalmente, con la consapevolezza che i prodotti “kidtech” siano il nuovo oggetto del desiderio.
  • La diminuzione della visione della TV da parte dei bambini porta allo sviluppo di nuove piattaforme. O meglio, le nuove piattaforme, con YouTubeKids, hanno portato all’impoverimento dei palinsesti televisivi, con conseguente migrazione dell’offerta advertising su questi nuovi canali. Un inventario di prodotti che cambia magazzino, abbracciando il nuovo mondo digitale, nuovi sistemi comunicativi e nuovi linguaggi.

Strategia, emozione, o sovraesposizione?

Baby e Kids Influencer non sono una novità, ma rappresentano un’evoluta emulazione del mondo dei genitori, influencer anch’essi. Prendiamo per esempio la famiglia Ferragni e il piccolo Leone, su cui riflettori e aspettative erano già puntati da prima della sua nascita; oppure contempliamo il mondo USA dove sono sempre di più i genitori che sottopongono ai riflettori di Instagram i loro figli. Basta infatti, una foto emotivamente esplosiva, patinata, e un tag a un prodotto: pochi ingredienti per collegare strategia ed emozione, ricevendo l’attenzione mediatica e dei brand.
Ma parliamo anche sovraesposizione: dal settembre 2018, infatti, l’accesso libero ai social network, quindi senza l’esplicito consenso dei genitori, non può avvenire per i minori di 14 anni.
Eppure, la generazione Alpha sta ugualmente esplodendo sui social visual, dando un contrastante eco a un mercato crescente che punta tutto su di loro.

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